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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI PALERMO
FACOLTÀ DI AGRARIA
CORSO DI LAUREA IN SCIENZE E TECNOLOGIE AGRARIE
DIPARTIMENTO DI AGRONOMIA AMBIENTALE E TERRITORIALE (DAAT)
Ottimizzazione dell’ agrotecnica della canapa (Cannabis sativa L.) per applicazioni di tipo farmaceutico.
L’uomo ha sempre tentato di sfruttare le sue conoscenze e la sua esperienza per ottenere dalla natura sostanze capaci di curare i malati e lenire le sofferenze. Alcune delle sostanze che egli aveva imparato a ricavare dalle piante sono tuttora alla base di farmaci che si utilizzano per combattere molte malattie; molte altre sostanze sono state successivamente sintetizzate in laboratorio, ed attualmente attraverso l’impiego di tecnologie avanzate la ricerca è sempre più impegnata nella preparazione di nuovi farmaci. Non vi è dubbio che tra le tante terapie alternative, la "fitoterapia" (cura delle malattie con le piante medicinali) ha assunto un ruolo di primaria importanza quale terapia integrativa nonché, in taluni casi, sostitutiva della terapia farmacologia classica. E’ a tutti noto che l’azione medicamentosa di una pianta sia attribuibile alla presenza in essa di sostanze chimiche, non sempre identificabili, dette "principi attivi", così denominati per la loro capacità di influenzare, in modo più o meno incisivo, i processi biochimici del nostro organismo e quindi il decorso di molte malattie; l’insieme dei principi attivi presenti in una singola pianta costituisce il suo “fitocomplesso”. Poichè le piante medicinali prive di dominante chimica sono assai numerose, per esse, lo studio di un singolo principio attivo non può condurre alla conoscenza delle proprietà della pianta, ma solo a quella del principio attivo stesso; gli studi sulle potenzialità terapeutiche di una pianta devono quindi puntare ad indagare sulla farmacodinamica del suo fitocomplesso, così da dosare le percentuali dei principi attivi nella formulazione di un farmaco.
Prima che un farmaco sia disponibile, in farmacia o in ospedale, deve essere sottoposto ad una serie di test per verificare l’efficacia della sua azione e la sicurezza nell’uomo. Queste ricerche sono dette sperimentazioni cliniche; esse analizzano le caratteristiche di ogni farmaco, l’utilità nella cura di una malattia, gli effetti collaterali e ciò a cui bisogna fare attenzione quando si utilizza un farmaco e le sue controindicazioni. Tali studi consentono inoltre di individuare il modo più corretto per prendere quel farmaco, le dosi consigliate ed il momento più adatto per l’assunzione. La sperimentazione dei farmaci è regolata da una serie di norme e principi etici che mirano a salvaguardare e proteggere le persone che li assumono; ciò significa che gli effetti collaterali non possono assolutamente essere separati dal beneficio del farmaco.
Negli ultimi anni l'uso terapeutico dei derivati della canapa sta vivendo un globale processo di rivalutazione. Numerosa è la bibliografia scientifica, storica o recente, riportante gli effetti terapeutici in numerose patologie degli estratti vegetali di canapa; i principi attivi, unicamente prodotti da tale specie, vengono detti cannabinoidi, i quali sono una famiglia di sostanze chimiche a 21 atomi di C.
Solo nell’ ultimo decennio, a partire dalla scoperta del sistema endocannabinoide umano, si è assistito ad un rinnovato interesse per tale famiglia di sostanze; si è iniziato a rivalutare la potenzialità farmaceutica del Δ9-THC, studiare le sue interazioni con gli altri cannabinoidi e la singola attività terapeutica degli altri cannabinoidi, ottenendo risultati molto importanti sia nello studio del fitocomplesso, che nell’attività terapeutica dei cannabinoidi minori non dotati di attività stupefacente, ma di “stupefacenti” campi di utilizzo. Numerose sono le sperimentazioni cliniche effettuate negli anni passati con esiti positivi, altrettanto numerose sono quelle attualmente in atto o che inizieranno nel prossimo futuro. Lo sviluppo delle conoscenze sul sistema dei cannabinoidi endogeni progredisce di pari passo all'individuazione di nuovi potenziali campi di utilizzo terapeutico.
La scienza farmaceutica ha da sempre focalizzato le sue attenzioni sul più conosciuto dei cannabinoidi, il Δ9-THC, il quale è dotato di numerosi campi di impiego terapeutico, ma che è dotato di attività psicotropa negli esseri umani causandone evidenti effetti collaterali che vanno ad urtare con la terapeuticità di tale principio attivo e le sue possibili applicazioni.
Il Sativex®, brevettato da GW Pharmaceuticals e che, grazie ad un accordo commerciale, viene distribuito sul mercato dalla Bayer, è il primo farmaco contenente cannabinoidi ottenuti da estratti vegetali ad essere accettato nella farmacopea ufficiale di un paese occidentale nell’ era moderna; ciò è avvenuto ufficialmente nell’aprile 2005 in Canada per il sollievo da dolore neuropatico nella sclerosi multipla e presto si prevede la sua totale accettazione anche in Gran Bretagna ed in altri paesi europei. Il Sativex® è uno spray sublinguale caratterizzato da una percentuale standardizzata di Δ9-THC e CBD, ad ogni spruzzo si assumono 2,7 mg di Δ9-THC e 2,5 mg di CBD (rapporto di quasi 1:1); del CBD è stata scientificamente dimostrata l’ attività modulatoria sul Δ9-THC, prolungandone l’effetto terapeutico ed attenuandone nettamente gli effetti collaterali, tanto che dai trial clinici condotti con le più rigide modalità (ovvero con randomizzazione, in doppio cieco, contro placebo e in più centri clinici) non si sono verificati effetti collaterali. Numerosi sono i trial clinici al momento in studio nei vari paesi per le numerose patologie curabili, ed anche in Italia è in avvio il primo. Il Sativex® è ottenuto dopo estrazione chimica, purificazione e titolazione da due varietà di Canapa: una ricca in Δ9-THC e una ricca in CBD; la stessa azienda farmaceutica sta selezionando anche dei chemiotipi che contengono in alte concentrazioni %, esclusivamente o prevalentemente, CBG, CBC, THCV, CBDV, CBGV in vista di un loro possibile utilizzo farmaceutico o come composti puri o come composti miscelati ai due cannabinoidi principali a % standardizzata.
Nel nostro Paese la situazione riguardante l’impiego della canapa è controversa. Questa pianta ed i suoi derivati sono compresi nella Farmacopea XII ed. tab. 2; questo vorrebbe dire che ne è ammesso l’uso per i malati forniti di prescrizione medica specialistica. I medici ritengono che essa sarebbe prescrivibile utilizzando gli appositi moduli, ma i funzionari del Ministero della Salute non sono dello stesso avviso e nel passato si sono verificati numerosi disguidi burocratici che hanno causato inspiegati ritardi nell’importazione. Qualora il medico specialista prescrivesse un farmaco a base di cannabinoidi sintetici o estratti vegetali di canapa, solo il farmacista avrebbe modo di procurarli al paziente, ma in Italia nessuno è autorizzato ad importarli o tanto meno a produrla per scopi terapeutici. Il Ministero ritiene che la canapa potrebbe essere impiegata in campo medico se questa avesse passato tutta la trafila di sperimentazioni che qualunque farmaco deve subire; ciò significa elevati costi per effettuare i vari stadi delle sperimentazioni e solo da alcuni anni l’ azienda farmaceutica predetta sta iniziando ad investirvi milioni di Euro rivalutando la precedente conoscenza ed esperienza millenaria sui prodotti della canapa, che ha anche visto una delle più grosse aziende farmaceutiche italiane (Carlo Erba) distribuire in tutte le farmacie questi prodotti fino alla fine degli anni ’30.
La ricerca dovrà puntare l’attenzione alla selezione di linee ricche quantitativamente dei singoli cannabinoidi e con un elevato grado di purezza del cannabinoide principale del chemiotipo ed al loro successivo miglioramento genetico. Ottimizzare l’agrotecnica è un’altra prerogativa della ricerca, in tal modo potranno essere massimizzate le produzioni di principio attivo per unità di superficie, diminuendo al contempo i costi di produzione.
La conoscenza dell’evoluzione qualitativa e quantitativa del profilo in cannabinoidi nei vari organi e nelle varie fasi del ciclo biologico della pianta, ed in particolare durante la fase della fioritura, contribuirà a comprendere meglio l’evolversi delle fasi di biosintesi e di bioaccumulo dei cannabinoidi e ad ottimizzarne la produzione; quest’ultimo è un risultato ottenibile solo con una migliore conoscenza del periodo ottimale di raccolta.
L’habitat originario della canapa si ritiene si trovi nell’Asia Centrale, dove tuttora cresce spontaneamente in Iran, Afghanistan, nella parte meridionale del Kazakistan ed in alcune zone della Siberia meridionale. Da queste zone si è diffusa nel corso dei secoli verso tutte le altre parti del mondo (Fig. 1.1).
Fig. 1.1: Dispersione primaria della Canapa
Alla dispersione primaria nell’Era Pre-Cristiana seguì una dispersione secondaria durante tutto il Periodo Storico (fino al 1960), ed ai giorni nostri sta avvenendo una dispersione terziaria della specie.
Numerosi reperti archeologici ritrovati non fanno altro che confermare come in ogni epoca storica le diverse popolazioni del pianeta avessero imparato a coltivare ed usare la canapa per molti scopi. Archeologi, antropologi, economisti e storici concordano sul fatto che da molto prima del mille a.C. e fino alla fine del XIX secolo la canapa fosse diffusamente coltivata, fornendo materia prima per i più diversi usi: fibre, tessuti, olio per illuminazione, carta, medicina, cibo.
Pare che i primi usi come medicina e fibra risalgano addirittura al XXVII secolo prima di Cristo; a quel tempo sembra venisse usata la canapa che cresceva spontanea. Le sue proprietà terapeutiche e ludiche erano ben note agli antichi abitanti di India, Cina, Medio Oriente e Asia Sud-Orientale, i quali la selezionarono principalmente per il contenuto in resina. In Europa ed in Estremo Oriente la canapa è stata coltiva in prevalenza per la produzione di fibra e di semi.
Le proprietà terapeutiche e psicotrope della canapa sono legate alla produzione dei cannabinoidi. Δ9-THC (Delta9-Tetraidrocannabinolo) e CBD (Cannabidiolo) sono i due principali cannabinoidi prodotti; il Δ9-THC possiede attività psicotropa, mentre il CBD no.
De Mejier (1999) ha descritto quattro gruppi genici della specie Cannabis sativa L., a seguito della selezione naturale, artificiale e naturalizzazione, rapportandoli al loro profilo chemiotipico; da tali gruppi genici hanno origine tutte le varietà coltivate attualmente esistenti nel Mondo (Tab. 1.1).
Tab.1.1: Gruppi genici della Cannabis sativa L.
GRUPPI GENICI AREA D’ ORIGINE DESTINAZIONE D’USO PROFILO CHEMIOTIPICO
1 Russia, Area Mediterranea ed Estremo Oriente fibra e seme bassa in Δ9-THC e da media a alta in CBD
2 Sud Asia, Sud-Est Asia, Africa e Nuovo Mondo Marihuana alta in Δ9-THC e bassa in CBD
3 Nord India, Nepal, Medio Oriente Hashish alta in Δ9-THC e da bassa a media in CBD
4 Afghanistan e Pakistan Hashish alta in Δ9-THC e da bassa ad alta in CBD
I quattro gruppi genici vengono raggruppati in due gruppi ad un livello di valutazione superiore: Cannabis sativa (gruppi 1, 2, 3 – comunemente detti “sativa”) e Cannabis afghanica (gruppo 4 – comunemente detto “indica”, distinto dagli altri tre gruppi per l’elevato contenuto percentuale in CBD).
Tale suddivisione in gruppi genici delle piante addomesticate, dei loro progenitori selvaggi e dei loro derivati naturalizzati assume un posto di rilevanza in un sistema di valutazione integrato che utilizza criteri di distinzione naturali, quali le differenze genetiche alla base dei differenti profili chemiotipici, e pratici, quali le distinte destinazioni d’uso di tale specie nel corso dei secoli.
1.2.1. - Classificazione tassonomica
Dal punto di vista prettamente scientifico, oggi la classificazione riconosciuta dalla quasi totalità dei botanici è la seguente (Quimby, 1974):
Divisione - Tracheophyta
Sottodivisione - Pteropsida
Classe - Angiospermae
Sottoclasse - Dicotyledoneae
Ordine - Urticales
Famiglia - Cannabaceae
Genere - Cannabis
Specie - Cannabis sativa L.
Precedentemente Cannabis fu classificata come appartenente alla famiglia delle Urticaceae (Schultes, 1970). Cannabis e Humulus sono i due soli generi che fanno parte della famiglia delle Cannabaceae (Grudzinskaya, 1988). Crombie e Crombie (1975) hanno sperimentato che l’innesto incrociato di Humulus in radici di Cannabis e viceversa non cambiavano la chimica dell’innesto. Il successo dell’esperimento di innesto tra Cannabis e due specie di Humulus (H. lupulus e H. japonicus) costituisce una prova consistente per la attuale classificazione botanica. I tentativi di ripetere l’esperimento tra Cannabis e Urtica dioica, hanno invece riportato solamente dei fallimenti, rendendo inattuale la precedente classificazione che inseriva Cannabis nelle Urticaceae.
La classificazione botanica della canapa ha vissuto diversi contrastanti periodi.
Oggi è generalmente accettato da buona parte dei botanici che il genere Cannabis è un genere monotipico con la sola specie Cannabis sativa L., come ipotizzato originalmente da Linneo nel 1753.
In accordo a tale classificazione, molte legislazioni occidentali indicano che i prodotti illeciti (Marihuana e Hashish) sono riconducibili alla sola specie Cannabis sativa L. .
In Italia, nel testo unico delle leggi sulla disciplina degli stupefacenti e delle sostanze psicotrope emanato il 9 ottobre 1990 (art. 26 D.P.R. n. 309/90), si fa riferimento alla Cannabis indica o canapa indiana, commettendo un errore nell’indicare due specie distinte; le due specie infatti, Cannabis sativa L. e Cannabis indica Lam. (sempre se si possano considerare due specie distinte) risultano indistinguibili sulla base del loro aspetto fenotipico; ciò provoca confusione alle Forze dell’Ordine nel momento in cui sono chiamate a distinguere tra l’incauto produttore agricolo che coltiva canapa a scopo tessile o sementiero e quello che coltiva canapa da droga per scopi illeciti.
Questo è tutt’oggi uno dei problemi principali riscontrati nei controlli effettuati nelle coltivazioni di canapa in Italia, rendendo maggiormente difficile il reinserimento di tale specie negli attuali ordinamenti colturali.
Nonostante il convincimento generale della natura monotipica della Cannabis, per molti anni vi sono state anche delle opinioni contrarie, causate soprattutto dalle difficoltà legali evidenziatesi in processi a persone accusate di crimini legati alla droga; autorevoli botanici (Schultes et al., 1974; Emboden, 1974 e 1977) dichiaravano la politipicità della specie indicando con Cannabis indica la specie da droga, contrastando con le loro stesse precedenti pubblicazioni nelle quali asserivano che Cannabis fosse un genere monotipico (Schultes, 1970; Emboden, 1972).
Il concetto politipico risale al 1785, quando Lamarck descrisse la specie Cannabis indica (proveniente dall’ India) come distinta dalla specie Cannabis sativa, indicando come la nuova specie differisse nello sviluppo e nei caratteri morfologici, oltre a sottolinearne le maggiori proprietà narcotiche, supponendo che potessero essere dovute a differenze chimiche. Successivamente numerosi botanici (Vavilov e Buckinich, 1929; Schultes et al., 1974; Zhukovskii, 1950) identificarono come Cannabis indica non solo popolazioni originarie dell’India, ma anche popolazioni selvatiche del Pakistan e Afghanistan e numerosi ecotipi coltivate in Iran, Turchia, Siria e Nord Africa.
Nel 1924 Janischewsky descrisse una terza specie - la Cannabis ruderalis - che egli distingueva principalmente per i caratteri morfologici dell’achenio. Questa specie si estendeva dal nord della Russia europea fino all’ovest della Siberia e dell’Asia Centrale.
Tale ipotetica politipicità fu oggetto di discussione nei dibattiti forensi in ogni parte del mondo.
I tassonomisti moderni hanno variamente caratterizzato il genere Cannabis.
I taxa che sono stati proposti in letteratura sono molto numerosi; tra questi Schultes et al. (1974), trovandosi d’accordo con Janischewsky (1924), identificano nel genere le specie C. sativa, C. indica e C. ruderalis, e individuano in ogni specie numerose varietà; altri tassonomisti (Vavilov e Bukinich, 1929; Serebriakova, 1940; Zhukovskii, 1950) non riconoscono la specie ruderalis ma considerano solo le prime due; Quimby (1974) e Small et al. (1973; 1976) preferiscono indicare il genere Cannabis con la sola specie Cannabis sativa L. caratterizzata da una elevatissima variabilità, e subito dopo, lo stesso autore Small, in compartecipazione con Cronquist (1976), riconosce in essa quattro forme, dividendola in due sub-specie (sativa e indica, considerate rispettivamente non psicotropa e psicotropa), ciascuna contenente due livelli sub-varietali.
In accordo con questi due ultimi autori, numerosi altri continuarono a usare il termine indica per indicare razze psicotrope, relazionando tale caratteristica anche al loro portamento tendenzialmente più basso e con una maggiore attitudine alla ramificazione (Zohary e Hopf, 1994).
In un lavoro di De Meijer et al. (1992) si fa riferimento ad un’ampia collezione di germoplasma (97 accessioni), suddivisa in tre gruppi definiti in base al contenuto % dei due principali cannabinoidi, Δ9-THC e CBD (vedi Fig. 2). Un gruppo era indicato “non psicotropo” (“non-intoxicant”), l’altro “intermedio” (“semi-intoxicant”) e l’ultimo “da droga” (“intoxicant”). Un campione di 32 popolazioni derivate da questa collezione è stato allevato nello stesso ambiente per due anni consecutivi e su un campione di piante di ciascuna popolazione sono stati rilevati 23 diversi caratteri. Le variazioni dei caratteri morfologici e fenologici sono stati confrontati tra loro, così come il contenuto in cannabinoidi. Le conclusioni sono state che nessun carattere è distintivo e costantemente associabile ad una diversa accessione o ipotetica specie, e solo la larghezza della lamina fogliare e la data della fioritura hanno mostrato una certa correlazione con il contenuto del cannabinoide psicotropo Δ9-THC, senza però rappresentare un elemento certo di distinzione per l’identificazione della specie. In sintesi, il lavoro ha dimostrato che l’ampia variabilità dei caratteri, nell’ambito della stessa popolazione o tra diverse popolazioni, non permette di avanzare criteri certi di differenziazione di distinte specie di canapa.
Tutte le popolazioni si fecondano tra di loro e finora, anche attraverso le moderne tecniche basate sull’analisi del DNA, non è stato possibile classificare le diverse popolazioni di Cannabis, ma solamente inquadrare le varie accessioni in gruppi, accomunate dalle stesse aree di provenienza.
Secondo Wilmot-Dear (1999) il genere sembra essere meglio classificato come comprendente una specie, le cui variazioni intrinseche, causate da selezione artificiale per la produzione di fibra, olio o resina psicotropa, sono seguite da naturalizzazione, cross-breeding e ricombinazione di caratteri, dando luogo ad un reticolato modello di variazioni dove, specialmente nelle piante femminili e meno nelle maschili, è possibile identificare morfologicamente e chimicamente numerose forme estreme accompagnate da un numeroso e continuo range di forme intermedie.
Tale autore effettua una distinzione della specie in tre gruppi varietali:
sativa, piante modificate con lo scopo di ottenere fibra e olio di semi; indica, piante modificate con lo scopo di ottenere resina psicotropa; spontanea, piante spontanee dell’Asia centrale e Sud Africa, piuttosto piccole e con corti internodi, le cui attuali popolazioni hanno perso quasi del tutto le caratteristiche morfologiche e chimiche del taxon spontanea a causa dei continui incroci con i taxon sativa e indica, e risultano intermedie con esse, ma aventi come carattere distintivo una maggiore persistenza del pericarpo del seme.
Un recente studio di Hillig e Mahlberg (2004), impostato sulle analisi chimiche, genetiche e morfologiche di numerose accessioni, ha supportato nuovamente il concetto dell’esistenza di due specie presenti nel genere Cannabis, indicandole Cannabis sativa (2 biotipi) e Cannabis indica (4 biotipi).
1.2.2. - Classificazione dei fenotipi in base al contenuto in cannabinoidi
Recentemente per ovviare al problema della classificazione soprattutto tra canapa a scopo tessile o sementiero e canapa da droga per scopi illegali si ricorre ad una semplice classificazione basata sul contenuto qualitativo e quantitativo di cannabinoidi della pianta distinguendo i vari tipi di canapa in tre fenotipi principali. Fondamentalmente, in funzione del contenuto % dei due principali cannabinoidi (Δ9-THC e CBD) una pianta può essere collocata all’interno di un grafico che ne definisce il fenotipo d’appartenenza (Small e Beckstead, 1973; De Meijer, 1992). In particolare, il grafico porta sull’asse delle ordinate la % di Δ9-THC, mentre sull’ asse delle ascisse la % di CBD; inserendo i valori % di Δ9-THC e CBD rilevati come coordinate nel grafico, si può individuare a quale fenotipo appartiene la pianta da valutare (Fig. 1.2):
Fenotipo 1: Piante “da droga” (“intoxicant”); Fenotipo 2: Piante “intermedie” (“semi-intoxicant”); Fenotipo 3: Piante “non psicotrope” (“non-intoxicant”).
Fig. 1.2: Schema riportante le aree di classificazione in base al contenuto in cannabinoidi
1.2.3. - Ciclo vitale e caratteristiche morfo-fisiologiche
Il ciclo vitale della canapa può essere diviso in sei diverse fasi fenologiche:
1: Germinazione: dura finché le prime due foglie vere comparse sul fusticino, raggiungono la grandezza delle foglie cotiledonari e sono capaci di attività fotosintetica.
2: Stadio di crescita lenta: dura di norma dalla comparsa del primo paio di foglie fino allo sviluppo del quinto palco.
3: Stadio di crescita rapida: dura fino alla formazione degli abbozzi fiorali.
4: Stadio tra l’accrescimento degli abbozzi fiorali e l’apertura dei primi fiori, dopodiché l’accrescimento gradualmente rallenta.
5: Fioritura: si estende tra l’apertura del primo fiore maschile, ed il conseguente rilascio di polline dalle antere, fino a quando si arresta la fioritura femminile .
6: Crescita dell’achenio: dura dall’inizio dello sviluppo dell’embrione nel seme fino alla maturazione del seme stesso.
La canapa può nascere e crescere con temperature fra i 12 e i 40-45°C, ma le temperature ideali sono di: appena al di sopra dei 20°C per la prima fase di crescita e per la successiva crescita vegetativa; appena al di sotto dei 25°C per la fioritura, in questa fase è bene che la fase di buio sia più fredda, condizione che sembra favorire un maggiore bioaccumulo dei cannabinoidi, dato che la traslocazione dei carboidrati avviene più efficacemente a temperature moderate piuttosto che a temperature elevate. Inoltre, temperature superiori ai 30-32°C causano una traspirazione eccessiva nelle piante, le quali mostrerebbero più facilmente fenomeni di stress idrico, se in condizioni irrigue non ottimali, con conseguenti diminuizioni nelle rese. Al di sotto dei 20°C tutti i processi di crescita rallentano progressivamente fino a fermarsi con temperature intorno ai 10°C; proprio per questo motivo la semina avviene in primavera quando la temperatura del terreno supera tale soglia di diversi gradi centigradi .
La canapa è una specie annuale erbacea, con stelo rigido ed eretto, le cui dimensioni in altezza variano da medie ad alte. Presenta una radice primaria ben sviluppata e con numerose radici secondarie; chiaramente la morfologia dell’apparato radicale è collegata con il suolo/substrato sul quale la pianta si sviluppa, tendendo ad approfondirsi se particolarmente sciolto o rimanendo superficiale se compatto.
La canapa varia notevolmente nelle sue caratteristiche morfologiche e chimiche al variare delle condizioni pedo-climatiche.
Quando cresce in zone ben illuminate e su terreni ben drenati e con una buona presenza di nutrienti ed acqua può raggiungere un’altezza di 5 metri in un periodo di coltivazione compreso tra i 4 ed i 6 mesi. Quando invece cresce in condizioni di elevata aridità e con scarsa presenza di nutrienti tende a ridurre il numero di foglie ed arresta la crescita a poche decine di cm, anticipando la fioritura.
Una fitta densità di semina (400-500 semi/m2, per ottenere circa 100 piante/m2 a fine ciclo), come avviene nelle produzioni da fibra, induce alle piante una crescita dello stelo in altezza con scarse ed esili ramificazioni; se invece viene seminata rada (6-8 piante/m2), come avviene nelle produzioni da seme o da droga, raggiunge una altezza inferiore ma ramifica vigorosamente e si verificano fioriture più abbondanti, e, conseguentemente, maggiori produzioni di seme o di droga.
La canapa è specie normalmente dioica sviluppando fiori maschili e femminili in piante separate, sebbene esempi di fiori monoici (fiori di entrambi i sessi in una stessa pianta) si riscontrano occasionalmente in individui geneticamente dioici.
Numerosi fattori contribuiscono alla determinazione sessuale di una pianta di canapa.
In condizioni normali di sviluppo, le popolazioni dioiche sono costituite da un egual numero di piante maschili e femminili, in quanto il sesso è determinato dalle semplici leggi di eredità sessuale legate ai cromosomi X e Y. Sotto condizioni modificative quali eccesso o difetto di nutrienti, mutilazione, freddo estremo o cicli alterati di illuminazione, si può verificare in individui geneticamente dioici l’insorgenza di fioriture intersessuali o addirittura il completo stravolgimento del sesso.
Il carattere “monoicismo” è stato sottoposto nell’ultimo secolo a selezione per ottenere la produzione di varietà geneticamente monoiche. All’interno di una stessa popolazione monoica si possono evidenziare individui monoici con una differente percentuale tra fiori maschili e femminili; tali forme vengono definite “intersessuali”. Grishko et al. (1937) hanno individuato 12 possibili forme, di cui 6 su piante con portamento femminile e 6 su piante con portamento maschile.
Le varietà dioiche vengono coltivate tradizionalmente per fibra o per droga; le varietà monoiche invece consentono di incrementare notevolmente le produzioni di seme (Bòcsa, 1961; Virovets et al., 1976) rispetto alle varietà dioiche, e certe specifiche varietà possono anche essere coltivate per la fibra senza grosse diminuizioni nelle produzioni.
In Italia il rilancio della canapa da fibra, grazie al Consorzio Canapa Italia, è stato incentrato sulla coltivazione di varietà monoiche, precoci, dotate di bassa e media vigoria, con buone rese in fibra, resistenti all’allettamento e con un contenuto in Δ9-THC inferiore allo 0,2 % di sostanza secca nel rispetto della Normativa Europea di riferimento.
La canapa è una specie ad impollinazione anemofila. L’impollinazione può avvenire tra piante site anche ad alcuni chilometri di distanza.
La semina avviene, nei paesi a clima temperato, nel periodo primaverile e normalmente la germinazione avviene in un periodo compreso tra i tre ed i sette giorni con l’ emergenza dell’ epicotile portante due cotiledoni di forma ovale, carnosi e a lembo intero. La prima foglia vera si ha ad un’altezza di 8-10 cm dal suolo ed è costituita da un paio di singole foglioline orientate in modo opposto e con il lembo seghettato.
Le successive paia di foglie si innalzano a coppie opposte e sono differentemente formate in numero di foglioline a seconda della sequenza di sviluppo; infatti la seconda coppia ha tre foglioline, la terza ne ha cinque, e via via fino a raggiungere anche undici-tredici foglioline per singola foglia.
L’altezza raggiunta dalla pianta e la lunghezza delle successive fasi fenologiche dipendono dalla data di fioritura, determinata a sua volta dalla varietà e dal fotoperiodo (Ranalli, 1998); essa infatti mostra una duplice risposta al fotoperiodo. Nei primi due-tre mesi di crescita a fotoperiodo lungo (16-18 ore di luce giornaliera) risponde ad un aumento del numero delle ore di luce giornaliere con una crescita vegetativa sempre più vigorosa, riuscendo ad accrescersi in altezza fino a 10 cm al giorno durante i giorni estivi a fotoperiodo lungo; dopo richiede un numero di ore di luce giornaliere inferiore (fotoperiodo corto) per fiorire e completare il suo ciclo vitale. Il numero di ore giornaliere critico per indurre la fioritura è variabile dalle 12 alle 14 ore. Generalmente le varietà monoiche sono più precoci delle dioiche; infatti le monoiche vengono indotte a fiorire quando il numero di ore di luce giornaliera scende al di sotto delle 14 ore di luce, mentre le dioiche vengono indotte a fiorire con 12-13 ore di luce giornaliera.
Popolazioni selezionte in ambienti a latitudini elevate, se coltivate a latitudini più basse manifestano una elevata precocità di fioritura; si verifica l’opposto per i genotipi provenienti da latitudini più basse e coltivate in aree a maggiore latitudine.
Molte razze richiedono un minimo numero di giorni a fotoperiodo corto per produrre fiori fertili; un più basso numero di giorni a fotoperiodo corto porta alla formazione di abbozzi fiorali non differenziati, la mancata induzione fiorale ed il proseguire della fase vegetativa se viene ristabilita una condizione di fotoperiodo lungo.
Il periodo di buio durante la fase di induzione fiorale non deve essere interrotto nemmeno da brevi periodi di luce, se no viene inibita l’induzione fiorale ed azzerato il precedente periodo di buio.
La conoscenza della risposta al fotoperiodo è di fondamentale importanza nelle coltivazioni di canapa terapeutica in quanto queste ultime, non venendo effettuate in pieno campo e quindi non seguendo il normale ciclo biologico della pianta, dovranno essere condotte con criterio e non commettendo assolutamente errori nell’illuminazione per non compromettere la produzione. La coltivazione della canapa terapeutica viene effettuata in ambiente “indoor” (cioè in condizioni ambientali completamente artificiali) o “semi-indoor” (cioè in serra con apposito impianto di illuminazione e riscaldamento); con tali tecniche di coltivazione è possibile attuare tecniche di forzatura o induzione alla fioritura con la semplice regolazione del fotoperiodo ed ottenendo in tal modo più cicli annuali.
Tali coltivazioni vengono effettuate con materiale clonale ottenuto da piante madri disposte in “stanze di vegetazione” (cioè con condizioni di fotoperiodo lungo ed una ricca concimazione azotata); queste piante riescono a fornire settimanalmente un gran numero di talee, e, alcune popolazioni specifiche, se mantenute in condizioni artificiali di fotoperiodo lungo e senza grossi sbalzi termici o stress idrici, possono vegetare anche per alcuni anni continuando a produrre talee e non sviluppando abbozzi fiorali.
Il primo segno di fioritura è dato dallo svilupparsi di abbozzi fiorali nella gemma apicale principale della pianta e successivamente nelle gemme ascellari che si trovano a livello dei nodi nello stelo.
Se si verificano stress nella fase vegetativa, si può verificare il fenomeno della “pre-fioritura” con la comparsa di piccoli abbozzi fiorali nelle gemme immediatamente inferiori alla principale; la pre-fioritura può evolversi in fioritura vera e propria con lo sviluppo delle strutture riproduttive su tutta la pianta o può regredire, con il disseccamento degli abbozzi fiorali, se si ristabiliscono le condizioni che avvantaggiano la fase vegetativa.
I fiori maschili sono organizzati in infiorescenze a pannocchia, composta da numerosi racemi ascellari. Il singolo fiore comprende: un perigonio a 5 pezzi e 5 stami (pendenti a maturità ed inseriti sul fondo del perigonio) a filamento breve con antere bi-loculari e deiscenti a secondo la lunghezza.
L’infiorescenza femminile si presenta come una falsa spiga, grossa, dritta e a ciuffo; essa si mostra molto più compatta e fogliosa dell’infiorescenza maschile.
Il singolo fiore femminile è composto da: una stipola, una brattea perigonale e un ovario uni-loculare sormontato da due stimmi filiformi sporgenti dalla brattea perigonale ricopritrice.
La struttura del singolo fiore (maschile o femminile) nelle piante monoiche non è differente rispetto a quella che si osserva nelle piante dioiche.
Generalmente si differenzia la disposizione delle infiorescenze sulla pianta; infatti i fiori maschili sono situati in un verticillo sull’inserzione delle ramificazioni primarie della pianta, mentre i fiori femminili si sviluppano di solito agli apici delle ramificazioni primarie; seppur più raramente, si può verificare anche la situazione opposta.
La canapa monoica con abito maschile possiede un numero di fiori maschili nettamente inferiore rispetto alla pianta dioica maschile; lo stesso avviene per una monoica con abito femminile rispetto ad una dioica femminile.
Prima della fioritura non è possibile distinguere il sesso della pianta, sebbene normalmente le piante maschili tendono ad essere più alte (+ 10-15 %) (Bòcsa, 1998) e meno ramificate, e viceversa le femminili meno alte e più ramificate.
Solamente attraverso le moderne tecnologie genetiche applicate e l’utilizzo di markers molecolari associati al sesso maschile, è possibile discriminare il sesso di una pianta dioica prima della fioritura (Mandolino et al., 1999; Bòcsa et al., 2002).
In entrambi i sessi appena inizia la fioritura cambia anche la fillotassi variando la disposizione delle foglie da opposte ad alternate, per poi rimanere normalmente alternate nei vari successivi stadi di formazione delle infiorescenze. Con l’avanzare della fioritura il numero di foglioline per foglia diminuisce fino ad avere una singola piccola fogliolina, che appare prima di ogni coppia di fiori (Clarke, 1981).
La fioritura maschile e femminile differisce in diverse caratteristiche.
Le piante maschili di solito muoiono subito dopo aver rilasciato in natura il loro polline, mentre le piante femminili possono proseguire lentamente in pieno campo la fioritura per alcuni mesi, fino a quando il gelo non le uccide.
Paragonandole alle piante femminili, le piante maschili mostrano un più rapido aumento in altezza ed un più rapido decremento della dimensione della foglia; infatti le foglioline che accompagnano i fiori maschili risultano di dimensioni ben più piccole rispetto alle foglioline che accompagnano i fiori femminili.
Avvenuta la fecondazione del fiore femminile è seguita da un graduale rigonfiamento della brattea perigonale dove l’ovulo inizia ad ingrossarsi e a costituire un embrione vitale.
Dopo approssimativamente 3-6 settimane il seme è maturo e pronto per la raccolta o alla naturale dispersione. La germinabilità del seme passa da valori prossimi al 100 % del primo anno a valori gradualmente decrescenti con il tempo. Il frutto è una piccola noce anche se molti si riferiscono a questo frutto come il “seme” di canapa.
La piccola noce è un achenio chiuso, circondato dal pericarpo che a sua volta è contenuto (prima della deiscenza) da una fogliolina. Ogni achenio contiene un solo seme. Le misure biometriche sono estremamente variabili (Fig. 1.3); il range del peso di 1000 semi è variabile dai 3 g ai 60 g. All’interno del pericarpo troviamo due cotiledoni ricchi di sostanze di riserva con una radichetta ed un fusticino non sviluppati.
Fig. 1.3: Variabilità delle misure biometriche del seme
La dioica femminile (Fig. 1.4) è oggetto delle coltivazioni di canapa terapeutica visto che la totale assenza di polline maschile non consente la produzione di seme, che comporterebbe alla pianta un ulteriore dispendio energetico per il progressivo accumulo di metaboliti in esso e, conseguentemente, consente una maggiore produzione in cannabinoidi.
Fig. 1.4: Infiorescenza di una pianta dioica femminile
Il fiore femminile con la maturazione si ricoprirà progressivamente di tricomi ghiandolari, i quali sono il sito di bioaccumulo dei principi attivi, cannabinoidi e terpeni; la miscela di quest’ultimi conferisce ad ogni singola pianta un distinto odore, mentre i cannabinoidi sono pressoché inodori.
Data la variabilità di bioaccumulo alle varie fasi della fioritura, per standardizzare i risultati di due o più coltivazioni successive debbono essere considerati lo stesso numero di giorni per ogni ciclo di coltivazione (più o meno tre mesi) con una stessa varietà clonale e non variare i vari parametri ambientali potenzialmente influenti sulle rese in cannabinoidi; ciò risulta facilitato dalla tipologia di coltura completamente artificiale che viene condotta attualmente nelle produzioni che sono “legalmente autorizzate” a produrre derivati vegetali della canapa per scopi terapeutici (GW Pharmaceuticals e due Enti autorizzati dal Ministro della Sanità Olandese). Le case farmaceutiche, lavorando con cloni ed in condizioni ambientali standard ripetibili, riescono ad ottenere una elevata omogeneità qualitativa e quantitativa per singola pianta e risultati molto riproducibili da ciclo a ciclo, riuscendo oltretutto a sviluppare tecniche di agricoltura biologica ed assicurando un prodotto farmaceutico standardizzato, nel caso del Sativex® (prodotto dalla GW Pharmaceuticals) o infiorescenze femminili con un costante contenuto % di principi attivi, o variabile entro un range minimo, nel caso del Bedrocan® e del SIMM18® (prodotti da due Enti autorizzati dal Ministro della Sanità Olandese).
La morfogenesi del fiore femminile è collegata, come vedremo, ad un differente numero (variabile quantitativa) ed a un differente contenuto (variabile qualitativa) dei tricomi ghiandolari presenti sulla brattea perigonale ed in generale su tutti gli organi aerei, influendo quindi sulla produttività quantitativa e qualitativa in cannabinoidi. Nella produzione di canapa da destinare all’industria farmaceutica è molto importante che la raccolta venga effettuata nella fase di massima resa in cannabinoidi.
Per tale tipologia di produzione assume rilevante importanza una conoscenza morfologica e fisiologica dei siti in cui avviene la biosintesi ed il bioaccumulo di dette sostanze.
1.2.4. - Siti di biosintesi e di bioaccumulo dei cannabinoidi
I cannabinoidi sono sostanze unicamente prodotte dal genere Cannabis.
La loro biosintesi e bioaccumulo è localizzata in ghiandole epidermiche specializzate (Fig. 1.5) distribuite su tutta la superficie aerea della pianta (Fairbairn, 1972; Hammond e Mahlberg, 1973; Lanyon et al., 1981).
Fig. 1.5: Ghiandole produttrici di resina sulla superficie fogliare
La produzione dei cannabinoidi, associata a quella dei terpeni, avviene in maggior misura nelle fioriture femminili rispetto alle maschili.
Nella canapa sono evidenziabili due differenti strutture di tricomi ghiandolari: i tricomi ghiandolari peduncolati ed i tricomi ghiandolari sessili.
La biosintesi e il bioaccumulo di dette sostanze avviene prevalentemente nei tricomi ghiandolari peduncolati, i quali iniziano a generarsi in numero sempre più abbondante sulle brattee del perigonio con l’inizio della fase della fioritura, mentre i tricomi ghiandolari sessili li troviamo in tutte le parti aeree della pianta sin dalle prime fasi di crescita (Lanyon et al., 1981).
Mahlberg e Kim (2003) esaminarono entrambi i tipi di ghiandole nella loro composizione in cannabinoidi, prelevandole singolarmente, ed ottennero che i tricomi peduncolati prelevati sulla venatura di una brattea hanno un contenuto maggiore in Δ9-THC di circa 20 volte dei tricomi sessili prelevati sulla venatura di una foglia; similarmente è stato riscontrato nei tricomi peduncolati prelevati sulla superficie non-venata di una brattea rispetto ai tricomi sessili prelevati sulla superficie non-venata di una foglia.
Un altro tipo di escrescenza epidermica è data dai peli sessili, i quali non hanno funzione secretoria e sono silicizzati e rigidi (Dayanandan e Kaufman, 1976; Hammond e Mahlberg, 1973); essi sono abbondanti sin dall’inizio della fase vegetativa in tutta la parte aerea, soprattutto sulle foglie.
La loro abbondante presenza su tutta la parte aerea fa pensare ad una loro evoluzione filogenetica legata ad un meccanismo di difesa dalla predazione e dal disseccamento, mentre l’abbondanza dei tricomi ghiandolari maggiormente sulla brattee del perigonio e sulle strutture riproduttive fa pensare che sia intimamente legata alla riproduzione gamica ed alla sopravvivenza della pianta, possibilmente ricavandone un vantaggio dato da un incremento nella produzione in semi ed in una loro conseguente maggior dispersione nell’ambiente circostante.
La totale assenza di queste tre differenti strutture nelle radici (De Pasquale et al., 1974) ci spiega la totale assenza dei cannabinoidi in tali organi.
I tricomi ghiandolari peduncolati sono presenti sia sulle piante staminate (maschili) che sulle piante pistillate (femminilli); il fatto che le piante pistillate sono più ricche in cannabinoidi delle staminate è legato al fatto che il numero dei tricomi ghiandolari peduncolati e sessili è nettamente superiore nelle brattee e nelle strutture riproduttive femminili piuttosto che nelle strutture riproduttive maschili (Lanyon et al., 1981).
Si può ritenere che, su prelievi effettuati sulla stessa pianta ed in organi diversi (foglia o fiore), il differente quantitativo % in cannabinoidi rilevabile dalle analisi gas-cromatografiche è associato ad un differente numero di tricomi ghiandolari presenti nella parte vegetale prelevata, un differente rapporto tra peduncolati e sessili ed un differente rapporto di biosintesi dei singoli cannabinoidi tra organi diversi, fattore quest’ultimo probabilmente legato ai differenti quantitativi e rapporti tra le sostanze ormonali presenti nei vari organi vegetali alle varie fasi fenologiche e che potrebbero influenzare notevolmente il processo di biosintesi e bioaccumulo di tali sostanze.
Turner et al. (1980) affermarono che specifici meccanismi di regolazione nella morfogenesi sembrano esistere nel controllare lo sviluppo dei due differenti tipi di tricomi in relazione all’organo nel quale si accrescono ed alla fase fenologica di riferimento; infatti, mentre alcune popolazioni hanno un maggiore contenuto % in cannabinoidi nelle bratte rispetto ad altre popolazioni, non è scontato che lo stesso trend di dominanza sia uguale anche per i contenuti % nelle foglie e che il rapporto tra i vari cannabinoidi si mantenga esattamente costante nei vari organi di una stessa pianta; quindi, nelle numerose differenti popolazioni di canapa, il differente bioaccumulo quantitativo, ed in parte anche qualitativo, tra gli organi della stessa pianta potrebbe essere spiegato con un più complesso meccanismo di biosintesi e bioaccumulo legato oltre che alle caratteristiche prettamente genetiche anche alle diverse condizioni metaboliche-ormonali di ogni singolo organo della pianta al susseguirsi delle varie fasi fenologiche dell’intero ciclo biologico della pianta stessa.
Le brattee che circondano il pistillo mostrano il più elevato contenuto in cannabinoidi (Honma et al., 1971-a e 1971-b), seguite dall’infiorescenza in se stessa, cioè il pistillo (Fetterman et al., 1971), il quale non contiene tricomi ghiandolari in superficie e la cui presenza in cannabinoidi potrebbe essere associata a non conosciuti e possibili altri siti di biosintesi o alla semplice aderenza alla resina della superfice interna della brattea che lo contiene, la quale è intimamente associata ad esso; gli stessi autori, e tanti altri, associano tale congettura al fatto che gli acheni non contengono rilevanti quantitativi in cannabinoidi, visto che nell’olio di semi di canapa sono rilevabili soltanto minime tracce di tali composti.
Anche le strutture riproduttive delle piante maschili contengono quantitativi in cannabinoidi (Fetterman et al., 1971; Ohlsson et al., 1971), ma a differenza delle piante femminili, avendo un ciclo molto più corto di quest’ultime dato che dopo aver rilasciato il polline bloccano il metabolismo e si disseccano, non riescono a bioaccumularne elevate concentrazioni nei tricomi ghiandolari, che oltretutto sono in quantità numeriche ben inferiori rispetto ai soggetti femminili. I tricomi ghiandolari peduncolati sono stati osservati sulla superficie dei tepali nei soggetti maschili ed, in specifico, le maggiori quantità sono rilevabili sui filamenti degli stami (Dayanandan e Kaufman, 1976), mentre file di tricomi ghiandolari sessili molto lunghi sono stati trovati in solchi sulla stessa antera (Fairbairn, 1972); ciò conferisce al polline un considerevole contenuto in cannabinoidi (Paris et al., 1975).
Briosi e Tognini (1894) sono stati i primi autori a studiare i tricomi ghiandolari nella loro composizione cellulare ed a caratterizzarli graficamente (Fig. 1.6).
I tricomi ghiandolari sessili sono abbondanti sullo stelo, foglie ed anche sulle brattee; i tricomi ghiandolari peduncolati predominano sulla superficie delle brattee del perigonio, ma sono anche rilevabili nelle altre parti dell’ infiorescenza.
La co-presenza nelle brattee dei due tricomi ghiandolari, ed il fatto che i tricomi ghiandolari peduncolati variano anche le dimensioni della cavità secretoria al variare delle caratteristiche che possono favorirne lo sviluppo, ha fatto pensare (Ledbetter e Krikorian, 1975) ad una loro possibile evoluzione dai tricomi ghiandolari sessili; infatti la differenza microscopica esistente tra i due tipi di tricomi ghiandolari potrebbe essere legata semplicemente allo svilupparsi con l’avanzare della maturazione di una netta zona di abscissione tra le cellule del peduncolo collegate alla base della cellula del disco e le stesse cellule del disco; ciò comporta una netta abscissione cellulare, con il raggiungere della maturità riproduttiva, tra il peduncolo e le cellule del disco intimamente connesse con la cavità secretoria. Osservazioni graduali effettuate su piante nelle varie fasi della fioritura rivelano la contemporanea presenza di entrambe, e quindi, se tale ipotesi evoluzionistica è attendibile, ciò sarebbe spiegabile da una eventuale incapacità di una parte delle sessili ad evolversi in peduncolate.
Fig. 1.6: Tricoma ghiandolare (da Briosi e Tognini, 1894)
Il contenuto in cannabinoidi nelle piante varia al variare della posizione in cui vengono effettuati i prelievi, decrescendo dalle foglie più giovani alle più vecchie, (Bòcsa et al., 1997; Turner et al., 1980) ed al variare della stagione dello sviluppo, come riportato da Turner et al. (1985); infatti essi, dopo aver allevato i cloni di tre diverse popolazioni per due anni in un’unica comune condizione di sviluppo, notarono delle fluttuazioni stagionali nella biosintesi e bioaccumulo dei cannabinoidi, e che tali fluttuazioni tra le tre popolazioni sono casuali piuttosto che cicliche, ed affermarono che tali variazioni sono probabilmente legate ai differenti metabolismi di ogni distinta pianta in risposta alle condizioni di sviluppo; quindi, probabilmente, uno stesso stimolo in certe popolazioni causa un aumento della biosintesi e del bioaccumulo mentre in altre può causarne una diminuizione.
Oltre alle variazioni tra i cloni delle tre distinte popolazioni, dovute prevalentemente a fattori genetici, vennero anche notate variazioni tra i cloni della stessa popolazione allevati in analoghe condizioni ambientali; venne notato che, sebbene le concentrazioni % possono variare anche significativamente, viene mantenuto sempre lo stesso profilo chemiotipico, cioè un rapporto costante tra i cannabinoidi maggiori, e le stesse caratteristiche morfologiche distintive della popolazione.
Come già detto, i contenuti in cannabinoidi variano anche man mano che procede la fase fenologica della fioritura; pertanto risulta di fondamentale importanza individuare la fase fenologica che consente di ottenere le maggiori produzioni. Ciò è ottenibile solo grazie ad una accurata osservazione al microscopio dello sviluppo raggiunto dalla maggior parte dei tricomi ghiandolari; essi, visti al microscopio, possono essere classificati per il loro contenuto a seconda del colore raggiunto: le ghiandole “mature” appaiono traslucide, mentre le ghiandole “vecchie” appaiono gialle e le ghiandole “senescenti” marroni (Mahlberg e Kim, 2003).
Le ghiandole mature sono quelle che presentano il più alto livello in cannabinoidi, mentre le ghiandole senescenti ne possiedono i livelli più bassi.
Il processo “di perdita” che avviene in tali ghiandole non è tuttora perfettamente conosciuto, sebbene si presume che i cannabinoidi si volatilizzano insieme ai terpeni (i quali si volatilizzano anche a temperatura ambiente, avendo temperature di ebollizione molto più basse dei cannabinoidi) disperdendosi nell’atmosfera o che subiscano specifici processi di degradazione; altri studi occorrono per una maggiore conoscenza di tale processo ed, in generale, per una migliore conoscenza dei processi di biosintesi e di bioaccumulo.
Mahlberg e Kim (2003) riuscirono con delle micropipette a prelevare il contenuto di resina della cavità secretoria senza danneggiare le cellule del disco, le successive analisi fornirono risultati molto variabili, in quanto in alcuni casi il contenuto dei singoli tricomi prelevati da brattee più grandi era maggiore di quello dei singoli tricomi prelevati da brattee più piccole, altre volte invece si verificava esattamente l’opposto; essi arrivarono alla conclusione che le componenti cellulari che sintetizzano i cannabinoidi non sintetizzano con un rapporto costante durante l’ intero sviluppo dell’ organo, ipotizzando quindi che l’attività biosintetica segue distinte fasi di attività.
Mahlberg, dopo circa un trentennio di studi e pubblicazioni sulla morfologia e fisiologia dei peli sessili e dei tricomi ghiandolari in collaborazione con altri fisiologi, riuscì a sbrogliare “buona parte” del bandolo della matassa riguardo alla localizzazione cellulare nei tricomi ghiandolari dei siti di biosintesi e di bioaccumulo dei cannabinoidi.
La ghiandola “propriamente detta”, dove avviene la biosintesi dei cannabinoidi, consiste nelle cellule del disco ed in una porzione non cellulare della parete interna della cavità secretoria.
I cannabinoidi si bioaccumulano nella cavità secretoria della ghiandola.
Mahlberg e Kim (2003) studiando le varie fasi della morfogenesi dei tricomi, rilevarono la presenza di cannabinoidi nelle pareti, nella matrice fibrillare e nel contenuto circostante le vescicole, ma non all’interno delle vescicole; sono stati anche rilevati piccoli quantitativi nelle cellule del disco. Da tali studi è emerso inoltre che nello strato delle cellule del disco vi è la presenza di una cellula “tipica” contenente un grosso nucleo, plastidi, mitocondri, reticolo endoplasmatico ed abbondanti ribosomi così come vacuoli; nelle altre cellule del disco, di minori dimensioni, sono presenti unicamente plastidi, i quali, come poi vedremo, sono stati individuati come la principale fonte di secrezione nella cavità. Essi si dividono ripetutamente, diventando molto numerosi nelle cellule più piccole dello strato delle cellule del disco e formano una inusuale componente centrale, chiamata “corpo reticolato” e derivato dai tilacoidi; questo corpo consiste in un numero di tilacoidi fusi con un ordinamento tubulare di aree luminose e scure caratterizzate da una disposizione esagonale.
Al corpo reticolato è stata associata l’attività secretoria dato che grosse quantità di secrezione sono state trovate sulla superficie dei plastidi con una evidente continuità con le aree luminose del corpo reticolato; questa continuità fisica ha fatto supporre l’ influenza di tale corpo sulla sintesi di tali secrezioni.
La secrezione è oleosa nella composizione e forma masse sferiche nel mezzo acquoso del liquido cellulare; tali secrezioni sono interpretate come secrezioni terpeniche, ed, oltretutto, anche nelle altre piante è riportato che i plastidi producono terpeni.
L’associazione dei cannabinoidi a determinati siti suggerisce che essi devono trovarsi proprio locati in tali siti piuttosto che liberi nella cavità secretoria.
I geni che regolano la produzione in cannabinoidi sono chiaramente presenti in tutte le cellule della pianta, ma i tessuti producono rispetto alle ghiandole livelli molto bassi di cannabinoidi.
Gli studi effettuati da Mahlberg hanno notevolmente contribuito a far luce sui siti di biosintesi e di bioaccumulo in cannabinoidi, sebbene ancora non si hanno notizie certe sul loro esatto sito di formazione.
Come poi vedremo nella loro biosintesi, i cannabinoidi risultano dei composti dimerizzati, consistenti di una unità terpenica e di una unità fenolica. L’abbondante attività di secrezione dei plastidi della cellula del disco e la conoscenza che questi organelli anche in altre specie vegetali sintetizzano terpeni, ci suggerisce che essi contribuiscono alla sintesi dell’unità terpenica.
Gli autori, in specifico, ipotizzano che i lipoplasti, che sono plastidi specializzati, siano alla base della biosintesi dell’unità terpenica.
La rilevazione in precedenti studi di abbondanti quantità in fenoli nell’intera ghiandola e la conoscenza che nelle altre specie vegetali i fenoli si accumulano nei vacuoli, fa pensare ad un possibile loro accumulo proprio in tali organelli. I fenoli sono trasportati nelle piante come glucosidi e, quando incominciano a localizzarsi nel vacuolo della cellula, lì si accumulano dopo essersi dissociati dalla parte glucosidica, la quale ritorna nel citoplasma cellulare.
Gli autori ipotizzarono dunque che i terpeni ed i fenoli, quando rilasciati dalle loro rispettive fonti, si accumulano nella membrana plasmatica e nell’interfase della parete cellulare, dove gli enzimi specifici dimerizzano questi composti in specifici cannabinoidi (Fig. 1.7).
Fig. 1.7: Siti di biosintesi e bioaccumulo dei cannabinoidi (da Mahlberg e Kim, 2003)
La riduzione o l’eliminazione assoluta dei tricomi ghiandolari attraverso processi di mutazione ridurrebbe notevolmente la quantità di cannabinoidi nelle piante, così come una selezione mirata all’ abbassamento del contenuto in cannabinoidi totali, selezionando le piante i cui geni recessivi siano associati ad una non produzione, o ad una produzione molto scarsa (< 0,1 - 0,2 % del peso secco) di tali sostanze; infatti il percorso di biosintesi dei cannabinoidi è controllato geneticamente e le ghiandole, evolvendosi, si sono specializzate a produrre grossi quantitativi in cannabinoidi, e, nonostante non si conosca ancora l’esatto ruolo dei cannabinoidi nella canapa, si ritiene che, come avviene in buona parte delle specie vegetali, esso dovrebbe essere legato alla protezione o ad un altro ruolo funzionale da cui la pianta tragga un beneficio. La più o meno marcata assenza può o non può alterare tale ruolo funzionale; infatti la presenza, a livelli molto bassi, nei tessuti potrebbe già essere sufficiente per assolvere a tale ruolo funzionale e consentire una coltivazione di pieno campo delle piante selezionate senza particolari perdite quantitative di prodotto; la riduzione o eliminazione dei tricomi ghiandolari, per mutazione o per selezione, potrebbe quindi essere molto utile nel miglioramento genetico per costituire nuove varietà di canapa industriale che non mostrino rilevanti quantità in cannabinoidi; in questo modo si andrebbe incontro alla Normativa UE per la coltivazione della canapa, che tende ad abbassare sempre più i livelli del contenuto % in Δ9-THC per far sì che una varietà possa usufruire degli aiuti stanziati ad ettaro per tale coltura, e, così facendo, verrebbe facilitata e rilanciata la coltivazione di questa pianta prestigiosa e duttile, ed, oltretutto, intimamente legata alla storia agricola italiana degli inizi ‘900.
1.3.1. - Biosintesi
I cannabinoidi sono stati definiti da Mechoulam e Gaoni (1965) come un gruppo di composti tipici a 21 atomi di C comprendenti anche i loro acidi carbossilici, analoghi e prodotti di trasformazione.
Chimicamente i cannabinoidi sono terpenoidi, cioè molecole non polari.
Essi risultano scarsamente solubili in acqua mentre sono altamente solubili nei grassi.
Nel materiale vegetale fresco i cannabinoidi sono presenti più abbondantemente sotto forma del relativo acido carbossilico; l'essiccamento, l'invecchiamento e il riscaldamento li convertono in forme neutre. Numerosi sono i cannabinoidi che si possono formare come prodotti di trasformazione a partire dai cannabinoidi principali.
Il massimo responsabile dell’attività psicotropa della canapa è il Δ9-tetraidrocannabinolo (Δ9-THC) ed è da sempre stato il più studiato sotto i diversi aspetti farmacologici e terapeutici. Esso venne identificato ed isolato nel 1964 da Gaoni e Mechoulam all’università ebrea di Gerusalemme. Il Δ9-tetraidrocannabinolo è conosciuto anche come Δ1-tetraidrocannabinolo a seconda della nomenclatura. In particolare se viene considerato un monoterpene arilsostituito la molecola prende il nome di Δ1-tetraidrocannabinolo, mentre se si considera un dibenzopirano prende il nome di Δ9-tetraidrocannabinolo. Comunemente viene chiamato Δ9-tetraidrocannabinolo. La nomenclatura IUPAC lo indica come: 6a,7,8,10a-tetraidro-6,6,9-trimetil-3-pentenil-6(H)-dibenzo[b,d]piran-1-olo.
Con lo sviluppo della tecnologia chimica applicata alla cromatografia, numerosi nuovi cannabinoidi sono stati separati ed identificati. Prove sperimentali su scimmie Rhesus compiute da Edery (1970) indicano che anche altri cannabinoidi quali, Cannabinolo (CBN) e Δ8- tetraidrocannabinolo (Δ8-THC), hanno attività psicotropa ma in misura nettamente minore rispetto al Δ9-THC; questi due cannabinoidi si trovano in natura in bassissime quantità negli estratti vegetali ed il più delle volte appaiono come prodotti di trasformazione del Δ9-THC; in conclusione si può considerare che l’effetto psicotropo della canapa sia dovuto esclusivamente al Δ9-THC.
Oggi il numero totale di cannabinoidi naturali conosciuti è di circa 70; molti di loro sono variazioni strutturali dei cannabinoidi maggiori; è un errore dire che i cannabinoidi sono sostanze psicotrope, perché, ad eccezione di quelli appena citati, i rimanenti non mostrano alcuna attività psicotropa.
La figura 1.8 rappresenta uno schema della probabile biogenesi dei cannabinoidi all’interno della pianta (Mechoulam e Ben-Shabat, 1999) ed i loro prodotti di trasformazione in determinate condizioni. Nel 1998 è stato identificato l’enzima che condensa il Geranil pirofosfato (GPP) con l’acido Olivetolico per dare il Cannabigerolo (CBG), che è il precursore di tutti i cannabinoidi; detto enzima venne denominato Geranilpirofosfatoolivetolatogeraniltransferasi (GOT) (Fellermeier e Zenk, 1998); esso agisce in maniera meno specifica catalizzando la reazione dell’Acido olivetolico con il nerilpirofosfato (NPP) come co-substrato per dare l’Acido Cannabinerolico (Fig. 1.9).
Fig. 1.8: Biosintesi dei principali cannabinoidi naturali (da Mechoulam e Ben-Shabat, 1999)
Fig. 1.9: Biosintesi del Δ9-THC (da Fellermeier e Zenk, 1998)
A questo punto è chiaro che i principali cannabinoidi naturali si formano in funzione dell’enzima che agisce sul Cannabigerolo (CBG) una volta che sia avvenuta la biosintesi di quest’ultimo. E’ stato purificato un enzima che sovrintende alla ossidazione-ciclizzazione del CBG per dare il Δ9-THC (Taura et al., 1995); si è visto che però questo enzima non porta ad una formazione intermedia del CBD, vanificando l’ipotesi che hanno supportato, e che tuttora supportano, numerosi autori: cioè che il Δ9-THC derivasse dal CBD.
Si desume che la produzione quantitativa in cannabinoidi totali sia direttamente collegata al livello di attività enzimatica svolta dall’enzima GOT, la cui azione porta alla produzione del CBG.
Il grado di attività dei singoli enzimi che agiscono sul CBG influenzerebbe anche le produzioni quantitative dei singoli cannabinoidi.
L’esistenza di più di un enzima con azione sul CBG spiega l’esistenza delle varie popolazioni di canapa, le quali, avendo un patrimonio genetico specifico, come conseguenza codificano in maniera specifica ed in diversa misura gli enzimi specifici per la conversione del CBG nei principali cannabinoidi.
Il meccanismo completo della biosintesi dei cannabinoidi rimane ancora da chiarire e da perfezionare nei suoi diversi aspetti.
1.3.2. - I vari tipi di Cannabinoidi
I cannabinoidi vengono divisi in tre distinte forme in funzione della loro fonte di produzione:
1- cannabinoidi naturali (prodotti dalla canapa),
2- cannabinoidi sintetici (prodotti dall’ ingegneria chimica),
3- endocannabinoidi (prodotti dall’ essere umano).
1.3.2.1. - Cannabinoidi naturali
Tipi di cannabinoidi
I numerosi tipi di cannabinoidi prodotti dalla canapa sono spesso derivati da un numero più ristretto di cannabinoidi, ai quali si guarda come “tipo” principale di cannabinoide. In un lavoro del 1980, Turner et al. divisero i cannabinoidi conosciuti secondo lo schema seguente (Tab. 1.2):
Tab. 1.2: Cannabinoidi naturali
Tipo di cannabinoide Conosciuti
Cannabigerolo (CBG) 6
Cannabicromene (CBC) 4
Cannabidiolo (CBD) 7
Δ9-Tetraidrocannabinolo (Δ9-THC) 9
Δ8-Tetraidrocannabinolo (Δ8-THC) 2
Cannabiciclolo (CBL) 3
Cannabielsoino (CBE) 3
Cannabinolo (CBN) 6
Cannabinodiolo (CBND) 2
Cannabitriolo (CBT) 6
Tipi vari 9
Altri cannabinoidi 4
I cannabinoidi che sono presenti in quantità % consistenti, ed in differenti rapporti nei vari materiali vegetali a seconda delle popolazioni, sono: Δ9-THC, CBD, CBG (ed i loro omologhi propilici Δ9-THCV, CBDV, CBGV) e CBC (Fig. 1.10); in alcune popolazioni è possibile rilevare discrete quantità di CBN e di Δ8-THC; il CBN rappresenta il maggiore prodotto di trasformazione del Δ9-THC e di esso ne vengono rilevate cospicue quantità nei prodotti illeciti derivati e lavorati a caldo della canapa, cioè nell’hashish.
Fig. 1.10: Formule di struttura dei principali cannabinoidi
Determinazione del contenuto in cannabinoidi
Numerose sono le metodiche cromatografiche che nei diversi anni sono state studiate, modificate ed applicate per evidenziare il contenuto dei cannabinoidi in campioni di canapa (Grassi e Ranalli, 1999).
La separazione dei cannabinoidi naturali con la cromatografia su strato sottile (TLC) è alquanto complessa a causa delle strette somiglianze strutturali fra i diversi cannabinoidi. Solo con la TLC bidimensionale si sono raggiunti buoni risultati.
Uno dei metodi più utilizzati per uno studio sia qualitativo che quantitativo dei cannabinoidi è la gas-cromatografia. Le migliori separazioni dei cannabinoidi neutri sono state ottenute in seguito a derivatizzazioni dei cannabinoidi neutri con formazione dei rispettivi trimetilsilil derivati (TMS); si ha un miglioramento nella forma dei picchi e una riduzione della loro codatura con conseguente aumento della loro sensibilità (Rustichelli et al., 1996).
L’accoppiamento on-line della gas-cromatografia (GC) alla spettrometria di massa (MS) ha trovato una vasta applicazione nella identificazione dei cannabinoidi naturali. Gli spettri di massa dei maggiori cannabinoidi, ed in particolare quelli dei loro trimetilsilil derivati sono molto caratteristici e pertanto la GC-MS è diventato un metodo selettivo e sensibile per la determinazione dei cannabinoidi.
Lo sviluppo della cromatografia su colonna in campo analitico è stato reso possibile dall’avvento della cromatografia liquida ad alta efficienza (HPLC). L’HPLC è una tecnica adatta alla quantificazione dei cannabinoidi neutri poiché, a differenza della GC, consente di separare separatamente i cannabinoidi acidi e neutri. Con l’analisi GC, la somma dei cannabinoidi neutri e dei cannabinoidi acidi, può essere ottenuta in seguito alla decarbossilazione termica dei cannabinoidi acidi nei cannabinoidi neutri appropriati (Δ9-THC-COOH diventa Δ9-THC, CBD-COOH diventa CBD, e via dicendo) a causa dell’elevata temperatura dell’iniettore (Lercker et al., 1992).
Gli estratti ottenuti da materiali vegetali contengono numerosi componenti matrice con differenti polarità oltre ai differenti componenti target dell’ analisi, il che da una parte può ostacolare la separazione desiderata e dall’ altra alcuni componenti possono legarsi irreversibilmente al supporto della colonna, compromettendone la sua durata e modificando le sue performance durante il percorso analitico.
L’n-esano è un solvente relativamente selettivo per l’estrazione di cannabinoidi neutri da materiale vegetale poiché discioglie bene i principali cannabinoidi neutri ma non discioglie i componenti matrice polari che possono fortemente danneggiare le fasi stazionarie polari cromatografiche (Veress, 2004).
Tutte le operazioni effettuate durante la preparazione del campione all’analisi cromatografica possono causare errori nei risultati quantitativi.
Un metodo immunologico-colorimetrico è stato proposto come metodo alternativo alle classiche tecniche analitiche per verificare “qualitativamente” (presenza o meno di Δ9-THC) un gran numero di campioni in un breve intervallo di tempo (Grassi, 1999); tale metodo si rivela molto utile nella ricerca o applicabile per i controlli da effettuare nei campi di canapa industriale, così da poter analizzare un maggior numero di piante per campo e con un notevole risparmio economico e di tempo rispetto ai metodi analitici tradizionali.
1.3.2.2. - Cannabinoidi sintetici
Vedi in “Produttrice di farmaci” Tabella 1.3.
1.3.2.3. - Endocannabinoidi
Gli studi sul possibile meccanismo d'azione dei derivati della canapa e, di conseguenza, sulle potenziali applicazioni terapeutiche di questi ultimi, hanno subito un'improvvisa accelerazione con la scoperta di specifici recettori per il Δ9-THC nonchè di ligandi endogeni per tali proteine.
Sono stati caratterizzati finora due tipi di recettori per il Δ9-THC e i suoi derivati sintetici: il recettore CB1, prevalentemente espresso nel sistema nervoso ed in alcuni tessuti periferici, scoperto nel 1990 (Matsuda et al., 1990), e il recettore CB2, identificato finora solo in cellule del sistema immunitario dei mammiferi, individuato per la prima volta solo nel 1993 (Munro et al., 1993).
Alla scoperta del recettore CB1 ha fatto immediato seguito, nel 1992, l'isolamento, dal cervello di maiale, del primo metabolita endogeno in grado di legarsi selettivamente a tale proteina. Si trattava dell'amide tra l'acido arachidonico e l'etanolammina, due componenti ubiquitari delle membrane cellulari animali, che venne chiamata “anandamide” (Mechoulam et al., 1992). Successivamente furono isolati, ancora dal cervello di maiale, altri due analoghi strutturali dell'anandamide (Mechoulam et al., 1993), mentre un'altro tipo di molecola, appartenente alla classe degli intermedi metabolici noti come “monoacilgliceroli”, fu identificata in tessuti periferici e proposta come ligando del recettore CB2: il 2-arachidonoilglicerolo (2-AG) (Fig. 1.11). In seguito venne scoperto che, mentre l'anandamide e i suoi analoghi attivano preferenzialmente il recettore CB1 (Mechoulam et al., 1995), il 2-AG, che è presente anche nel cervello dei mammiferi (Sugiura et al., 1995), può attivare indifferentemente entrambi i tipi di recettori per il Δ9-THC (Mechoulam et al., 1995).
Fig.1.11: Principali endocannabinoidi
L'anandamide (arachidonil-etanolamide) è una sostanza prodotta dalle nostre cellule cerebrali che, per quanto chimicamente diversa dal Δ9-THC, interagisce, nel nostro organismo, con gli stessi recettori di quest'ultimo. La sua scoperta, avvenuta in epoca relativamente recente, ha aperto la strada alla comprensione dei meccanismi fisiologici dei derivati della canapa nonchè dei loro potenziali utilizzi terapeutici. L'anandamide, il cannabinoide fisiologico presente nel nostro cervello, funziona come neurotrasmettitore. I neurotrasmettitori sono molecole-messaggero che trasportano i segnali fra i neuroni.
La scoperta di recettori per il Δ9-THC e di molecole endogene in grado di attivare tali proteine, simulando così in gran parte i tipici effetti psicotropici (e non) della canapa, dimostrava l'esistenza di un sistema cannabinoide endogeno il cui ruolo fisiologico è ancora materia di dibattito.
Benchè l'attività farmacologica in vivo ed in vitro degli endocannabinoidi, ed in particolare dell'anandamide, sia stata oggetto negli ultimi anni di numerosissimi studi solo in pochi casi si è potuto mettere in relazione la sintesi di tali composti nei tessuti con l'intervento di particolari situazioni fisiopatologiche.
Numerosa è la bibliografia già esistente e gli studi sono in piena evoluzione grazie anche ad un attivissimo gruppo di ricerca italiano.
Indubbiamente, ancora numerosi sforzi saranno necessari per individuare il ruolo fisiopatologico degli endocannabinoidi. Dal successo di tali sforzi dipenderà anche il possibile sviluppo di nuovi farmaci utili nel trattamento di alcuni disturbi del sistema nervoso, immunitario e cardiovascolare per i quali esistono ancora rimedi poco efficaci.
1.4. ECOLOGIA CHIMICA DEI CANNABINOIDI E DEI TERPENI
Le piante producono una vasta e diversificata gamma di composti organici, definiti prodotti secondari, che non sembrano avere una funzione diretta sulla crescita e sullo sviluppo, ma che bensì hanno come funzione principale la difesa della pianta da predatori e patogeni. (Taiz e Zeiger, 1991).
La canapa produce un gran numero di composti (quasi 500 attualmente individuati), dei quali numerosi sono tipicamente produzioni del metabolismo secondario; tra quelli che verranno trattati in specifico, più di 60 appartengono alla famiglia dei cannabinoidi, unicamente prodotti dalla canapa, ed un centinaio sono i terpeni che costituiscono nel loro insieme l’odore o olio essenziale di tale pianta.
Oltre a questi due gruppi di composti sono stati individuati alcani, composti azotati, flavonoidi, varie miscele di composti, amminoacidi e proteine, glico-proteine, enzimi, zuccheri e composti relativi, idrocarboni, alcoli, chetoni, acidi semplici e acidi grassi, esteri e lattoni, steroidi, fenoli, vitamine e pigmenti (Turner et al., 1980).
La produzione associata di cannabinoidi e terpeni nella canapa dipende sia dalle caratteristiche genetiche che dalle influenze nello sviluppo (Pate, 1994).
La loro biosintesi, come già detto, avviene in ghiandole specializzate situate sulla superficie di tutte le strutture aeree della pianta; tali ghiandole variano in forma, densità numerica ed attività secretoria a seconda del sito di ubicazione e della fase fenologica raggiunta.
Cannabinoidi e terpeni servono apparentemente come meccanismi di difesa adoperati dalla pianta contro le varie avversità biotiche ed abiotiche, agendo con ruolo antibiotico, attenuando il disseccamento e la predazione da parte di animali erbivori ed insetti, e proteggendo la pianta dagli eccessi delle radiazioni UV-B, le quali sono presenti, nello spettro luminoso della radiazione solare, in differenti quantità percentuali a seconda dell’ areale in cui la specie viene coltivata e si è evoluta; quest’ ultimo aspetto spiega come negli ambienti tropicali, caratterizzati da una radiazione solare particolarmente ricca in UV-B, ed in combinazione al fatto che il CBD è una molecola particolarmente instabile agli UV-B, può aver influenzato l’evoluzione del genere Cannabis, che ha potuto percorrere una via biogenetica alternativa, data dalla diretta trasformazione enzimatica del CBG in Δ9-THC nelle popolazioni tipiche di queste zone, piuttosto che il maggiore bioaccumulo in CBD che, distintamente, si verifica nelle popolazioni tipiche degli ambienti temperati, caratterizzati dai più bassi livelli in UV-B. Come già detto, a tale naturale evoluzione della specie, va aggiunta anche una non-indifferente azione esercitata dall’opera di selezione dell’uomo, che ha coltivato tale pianta per differenti finalità.
Inizialmente si pensava che i cannabinoidi fossero presenti negli organi vegetali come composti fenolici, ma alcune ricerche (Fetterman et al., 1971; Masoud e Doorebons, 1973; Small e Beckstead, 1973; Turner et al., 1973) hanno indicato la loro esistenza negli organi vegetali predominantemente sotto forma di acidi carbossilici, i quali si decarbossilano prontamente con il tempo (Masoud e Doorebons, 1973; Turner et al., 1973), con il riscaldamento (De Zeeuw et al., 1972; Kimura e Okamoto, 1970) o in condizioni alcaline (Grlic e Andrec, 1961; Masoud e Doorebons, 1973).
Sebbene la produzione sia quantitativa che qualitativa di cannabinoidi è legata a fattori genetici, una importante influenza va attribuita ai fattori ecologici di sviluppo (Bouquet, 1950; Fairbairn e Liebmann, 1974; Valle et al., 1978), e, in particolare, si ritiene che le condizioni “di serra” sono da ritenere di grande importanza nel potenziare la produzione per tale finalità.
Piante sotto stress incrementano i loro contenuti in cannabinoidi (Haney e Kutscheid, 1973; Latta e Eaton, 1975), sebbene lo stress causi il più delle volte una marcata caduta delle foglie più vecchie, che sono caratterizzate dai livelli più bassi di cannabinoidi (Small et al., 1975) e fioriture meno abbondanti.
L’incremento risultante nella biosintesi, e nel successivo bioaccumulo, dei cannabinoidi e dei terpeni contenuti nella resina, come conseguenza del sussistere di alcuni stress, appare come un meccanismo di difesa in grado di conferire benefici adattativi a fattori limitanti.
Numerosi sono i fattori che possono determinare “stress” nello sviluppo delle specie vegetali; andiamo ad analizzare i maggiori tra questi, considerandoli singolarmente:
Disponibilità idrica
Il Δ9-THC è un olio viscoso idrofobo, di bassa volatilità e che resiste alla cristallizzazione (Mechoulam e Gaoni, 1971). La resina prodotta dalle piante di canapa non è altro che un miscuglio dei vari cannabinoidi e terpeni; essa può essere considerata di funzione analoga al rivestimento ceroso dei cactus e delle altre piante succulente, fungendo da barriera protettiva alle perdite traspirative in condizioni siccitose.
Bouquet (1950) ha riportato che l’ammontare di cannabinoidi nell’hashish prodotto nelle montagne occidentali del Libano è molto meno abbondante che quello prodotto nelle montagne orientali a causa dei venti umidi che investono frequentemente le prime. Esperienze di tipo scientifico hanno rafforzato i più datati riferimenti empirici a tal riguardo. Sharma (1975) ha riportato che la densità di tricomi ghiandolari è maggiore sulle foglie di piante accresciutesi in ambiente secco. Paris et al. (1975) hanno rilevato un marcato aumento del contenuto in cannabinoidi nel polline di piante maschili con il diminuire dell’umidità ambientale. Murari et al. (1983) coltivando diverse varietà da fibra in tre differenti zone climatiche d’Italia, trovarono valori più alti in Δ9-THC nelle piante allevate nelle zone più asciutte (“continentali”) rispetto a quelle coltivate nelle zone più umide (“marittime”). Hakim et al. (1986) riscontrarono che una varietà da fibra (ricca in CBD e quasi assente in Δ9-THC), coltivata in Sudan, in condizioni molto più siccitose, può produrre quantità significativamente maggiori in Δ9-THC e minori in CBD. Gli stessi autorei rilevarono che questo trend chemiotipico vinene accentuato nella generazione successiva di piante. Tali effetti non appaiano solamente imputabili solamente alle differenti condizioni di umidità relativa, ma vanno anche collegati alla differente latitudine di coltivazione, che, come precedentemente visto, può alterare la biosintesi dei singoli cannabinoidi, al variare della quantità di UV-B intercettata dalla pianta.
Haney e Kutscheid (1973) dimostrarono una significativa correlazione del contenuto in cannabinoidi delle piante con i fattori influenzanti la disponibilità di umidità nel suolo: contenuto in sabbia ed argilla, pendenza dell’appezzamento coltivato e competizione con le piante circostanti; in quest’ultimo caso tale fattore adduce alle piante una formazione ridotta dell’apparato radicale rispetto alla parte aerea, e ciò potrebbe aumentare sia la frequenza che la intensità degli stress idrici.
Temperatura
La temperatura gioca un ruolo molto influente nel bioaccumulo dei cannabinoidi, ma tale fattore deve sempre essere considerato associato all’umidità disponibile nel suolo. Boucher et al. (1974) hanno riportato un incremento nel bioaccumulo passando dai 23 °C ai 32 °C, nonostante alcune variabili come l’aumento delle perdite d’acqua a causa della evaporazione e della traspirazione non sono state prese in considerazione. Viceversa Bazzaz et al. (1975), usando 4 ecotipi, di origini sia tropicali (Δ9-THC) che temperate (CBD), riportarono una diminuizione nel bioaccumulo con l’aumentare delle temperature dai 22°C ai 32°C.
Studi successivi effettuati da Braut-Boucher (1980) su cloni di due differenti razze del Sud Africa rivelarono un ben più complesso modello di biosintesi e di bioaccumulo associato ad ogni razza ed a ogni specifica pianta clonata, oltre che a differenti composizioni degli omologhi chimici prodotti.
Anche la temperatura ed il tempo di essiccazione prima di effettuare lo stoccaggio o l’estrazione e la successiva analisi dei cannabinoidi influenzano nettamente il profilo chemiotipico a causa della degradazione-trasformazione dei cannabinoidi maggiori in altri cannabinoidi minori (Coffman e Genter, 1974).
Predazione da parte di erbivori ed insetti
Il metodo di apportare ferite alle piante è stato impiegato sin dall’antichità per incrementare la produzione in resina nelle specie vegetali (Emboden, 1972).
Questo incremento dovrebbe essere legato ad una risposta della pianta al disseccamento che si verifica attorno al punto in cui avviene l’interruzione dei vasi vascolari.
In normali condizioni colturali, le ferite sono generalmente causate dagli attacchi degli insetti, più che dagli erbivori. La canapa subisce attacchi economicamente dannosi solo da pochi predatori ed è stata utilizzata sotto forma di polvere o di estratto come insetticida o repellente. Il suo apparente meccanismo difensivo consiste nel generare una protezione con i numerosissimi tricomi non ghiandolari, l’emissione di sostanze terpeniche volatili e l’essudazione dei viscosi cannabinoidi.
La quantità di terpeni sembra essere associata alla densità dei tricomi ghiandolari e quindi alla produzione di cannabinoidi; buona parte di essi sono prodotti maggiormente nelle infiorescenze che nelle foglie, oltre ad essere più abbondanti quantitativamente nelle piante femminili rispetto a quelle maschili (Martin et al., 1961).
Al momento non esistono numerosi studi specifici che riportano la tossicità o repellenza dei singoli cannabinoidi negli insetti, ma incoraggianti risultati sono stati ottenuti da Rothshild et al. (1977, 1980) rilevando che il Δ9-THC provoca la morte delle larve di Arctia caja e che l’irrorazione di foglie di cavolo con Δ9-THC produce un’azione repellente contro le larve di Pieris brassicae.
Altri studi, condotti da Sharma et al. (2000) per valutare l’attività larvicida dell’olio essenziale estratto da canapa su diverse specie di zanzara hanno dimostrato come tale olio essenziale induce la mortalità del 100 % delle larve di Culex tritaeniorhynchus, Anopheles stephensi, Aedes ageypti e Culex quinquefasciatus, quando viene impiegato rispettivamente a concentrazioni del 0,06, 0,1, 0,12 e 0,2 ml per litro di acqua, e che l’estratto acquoso è più tossico dell’estratto etanolico.
I cannabinoidi servono anche come difesa meccanica della pianta; infatti un insetto, attraversando la superficie fogliare o le brattee fiorali, provoca la rottura dei tricomi ghiandolari, facendone fuoriuscire la resina rimanendone impregnato; la presenza della resina ostacola anche il movimento degli insetti sulla pianta.
L’utilità di queste caratteristiche epidermiche contro la predazione è anche deducibile dalla loro predominante presenza nella superficie della pagina inferiore della foglia, la quale generalmente è la parte di pianta preferita dagli insetti per l’alimentazione e la deambulazione. Sebbene tale strategia biologica della canapa sembrerebbe legata apparentemente ad un particolare e sofisticato sistema di difesa unico di tale specie, molte altre piante (Levin, 1973) ed artropodi (Eisner, 1970) utilizzano meccanismi di difesa similari, e, molto spesso, ciò avviene utilizzando anche gli stessi identici terpeni e simili strutture ghiandolari.
Batteri e funghi
I cannabinoidi servono anche come protezione della pianta dai microrganismi.
I preparati di canapa sono stati utilizzati a lungo come medicina in numerose malattie infettive (Kabelic et al., 1960; Mikuriya, 1969).
Tali proprietà antibiotiche sono state dimostrate sia per gli estratti generici di canapa (Kabelic et al., 1960) che per i diversi singoli cannabinoidi (El Sohly et al., 1982; Farkas e Andrassy, 1976; Van Klingerem e Ten Ham, 1976).
Il CBG è stato comparato da Mechoulam e Gaoni (1965), sia per la struttura che per le proprietà antibatteriche, alla grifolina, un antibiotico prodotto dal basidiomicete Grifolia conflens.
Fournier et al. (1978) indagando sull’attività batteriostatica dell’olio essenziale di tre differenti popolazioni di canapa su cinque popolazioni di batteri sviluppati in culture liquide hanno riscontrato una consistente attività antibatterica in particolare sui batteri Gram +.
Alcuni dei patogeni fungini che attaccano la canapa sono: Alternaria alterata, Ascochyta prasadii, Botryosphaeria marconii, Cercospora cannabina e Cercospora cannabis, Fusarium oxisporum, Phoma sp. e Phomopsis ganjae.
McPartland (1984) ha dimostrato l’ effetto inibitorio del Δ9-THC e del CBD su Phomopsis ganjae; invece De Meijer et al. (1992), analizzando un gran numero di genotipi, non ha trovato alcuna correlazione tra il contenuto in cannabinoidi e l’entità dell’attacco di Botrytis.
Radiazioni ultraviolette
Un altro stress a cui le piante sono soggette è la loro esposizione giornaliera alle radiazioni ultraviolette (comprese tra 280-315 nm), fattore questo che ha influenzato l’evoluzione delle specie e le strategie di difesa.
Uno studio preliminare molto importante a tal riguardo, condotto da Pate (1983), ha dimostrato che, in aree caratterizzate da un’elevata esposizione a tali radiazioni, il Δ9-THC, a seguito della specifica attività di assorbimento, determina un beneficio evolutivo. In tali condizioni ambientali, infatti, si sono evoluti biotipi con maggior contenuto di Δ9-THC, partendo dal precursore biogenetico CBD, come risposta allo stimolo evolutivo delle radiazioni UV-B.
Lydon et al. (1987) hanno dimostrato che canapa cresciuta sotto esposizione a UV-B produce maggiori quantità di Δ9-THC. Lydon e Teramura (1987) hanno evidenziato l’instabilità del CBD all’esposizione agli UV-B, differentemente dalla stabilità mostrata dal Δ9-THC e dal CBC.
Breinnesen (1984) ha riscontrato proprietà d’assorbimento degli UV-B simile tra Δ9-THC e CBD e significativamente maggiore CBC. La maggiore assorbenza di quest’ultimo rispetto al Δ9-THC, e la sua relativa stabilità rispetto al CBD, fanno sì che tale composto possa essere considerato come la sostanza protettiva della pianta, mentre la presenza di grossi quantitativi di Δ9-THC verrebbe semplicemente spiegata come un progressivo bioaccumulo di tale composto alla fine della via enzimatica di biogenesi dei cannabinoidi. L’ipotesi di una azione protettiva del CBC implicherebbe lo svilupparsi di una alternativa via biosintetica che porta dal CBG al Δ9-THC attraverso il CBD.
Gli studi di gas-cromatografia effettuati fino al 1973 (Turner e Hadley, 1973) non consentivano una corretta separazione-distinzione tra CBD e CBC, poiché i due composti hanno lo stesso tempo di detenzione e formano un unico picco quando il ciclo di analisi non è sufficientemente lungo da consentire una adeguata separazione; a ciò può essere ascritta la confusione tra i due cannabinoidi nella letteratura precedente. I due autori riferiscono che in popolazioni allevate in ambienti con clima tropicale difficilmente sono riscontrabili quantità significative di CBD, mentre tali popolazioni abbondano di Δ9-THC; viceversa, tale fenomeno non si verifica nelle popolazioni dei climi temperati; pertanto ipotizzano una via biosintetica alternativa per tali sostanze, che non prevede il passaggio da CBG a Δ9-THC attraverso il CBD. Yagen e Mechoulam (1969) hanno sintetizzato il Δ9-THC direttamente dal CBC, utilizzando un metodo similare a quello della ciclizzazione catalizzata da acidi già utilizzato nella sintesi del Δ9-THC partendo dal CBD (Gaoni e Mechoulam, 1966).
In altri studi (Shoyama et al., 1975), effettuati utilizzando traccianti radioisotopi, è stata riscontrata presenza di CBD e non di di CBG in varietà che producono bassi livelli di Δ9-THC e di CBC in varietà che producono alti livelli di Δ9-THC. Vogelman et al. (1988) hanno riportato che i valori dei cannabinoidi (CBC, CBG e Δ9-THC) di differenti popolazioni messicane sono relazionabili al loro stadio di sviluppo e all’esposizione solare; inoltre, nelle popolazioni utilizzate non è stat riscontrata la presenza del CBD.
Nutrienti nel suolo
La disponibilità di nutrienti nel suolo influenza il bioaccumulo dei cannabinoidi.
Krejci (1970) ha riscontrato valori particolarmente elevati di Δ9-THC in materiale vegetale prelevato da piante allevate in terreni molto poveri in nutrienti.
Haney e Kutscheid (1973), in una ricerca finalizzata ad acquisire informazioni sull’effetto di diffrenti disponibilità nel suolo di K, P, Ca e N, hanno evidenziato una correlazione negativa tra disponibilità di K e contenuto in Δ9-THC, ed una correlazione positiva tra disponibilità di N e Ca ed il contenuto in Δ9-THC. Queste correlazioni sono rilevabili anche per i cannabinoidi minori.
Kaneshima et al. (1973) ha evidenziato il ruolo fondamentale svolto dal Fe nella biosintesi del Δ9-THC.
Latta e Eaton (1975) hanno riscontrato a loro volta l’importanza del Mg e del Fe nella produzione del Δ9-THC, suggerendo una loro possibile funzione come co-fattori di enzimi coinvolti nella biosintesi dei cannabinoidi.
Risultati analoghi sono stati otteuti da Coffman e Genter (1975) i quali hanno evidenziato una significativa correlazione negativa tra l’altezza delle piante a maturazione ed il contenuti in Δ9-THC, suggerendo anche che gli stress abiotici in genere, deprimendo l’accrescimento, influiscano indirettamente sul bioaccumulo dei cannabinoidi. Dallo stesso studio; inoltre, è emerso che il Mg estraibile dal suolo è negativamente correlato con le concentrazioni di N, Δ9-THC e CBD nei tessuti fogliari ed anche che il P2O5 estraibile è negativamente correlato con la concentrazione in CBD nei tessuti fogliari.
Tuttavia, gli stessi autori in un successivo lavoro (1977) hanno riportato, in contraddizione con quanto precedentemente riportato, che la crescita delle piante, la biomassa e la concentrazione di CBD e Δ9-THC sono positivamente correlati con il P2O5 estraibile, e la concentrazione di quest’ultimo nei tessuti fogliari è similarmente correlata con la quantità in sostanza secca e la concentrazione in cannabinoidi; invece il K2O estraibile è negativamente correlato con la biomassa e l’N estraibile è negativamente correlato con la crescita e la biomassa.
Il contenuto in cannabinoidi delle foglie diminuisce procedendo alle analisi di campioni prelevati scalarmene dall’apice al colletto della pianta (Turner et al., 1980).
Bòcsa et al. (1997), in una prova in pieno campo utilizzando varietà da fibra, hanno evidenziato che all’aumentare delle somministrazioni in N (100, 450, 600 mg/kg di suolo), mantenendo costanti gli apporti in P e K, si ha un decremento graduale del contenuto in Δ9-THC, e che le foglie più vecchie contengono un minore quantitativo in cannabinoidi rispetto alle più giovani, non rilevando una interazione significativa tra i due fattori; ciò ci suggerisce che un eccessiva concimazione azotata può indurre una diminuizione della biosintesi dei cannabinoidi totali.
Infine, Marshman et al. (1976) descrissero di aver ottenuto in Jamaica maggiori concentrazioni percentuali di Δ9-THC in piante cresciute su suoli arrichiti organicamente rispetto a piante cresciute in suoli fertilizzati artificialmente con sostanze minerali.
1.7. ASPETTI GENETICI E FISIOLOGIA DEL PROCESSO RIPRODUTTIVO
Data la bibliografia sulle proprietà farmacologiche e sinergiche del CBD ed i buoni presupposti di attività farmacologica anche per i cannabinoidi minori, si auspica a tale scopo una loro produzione in vaste quantità e l’ottenimento di linee pure che lo producono selettivamente ed in ampie quantità percentuali; si ritiene possibile ottenere linee con chemiotipo Δ9-THC e CBD che producono anche il 25-30 % in cannabinoidi sulla sostanza secca e con un grado di purezza del 95 % circa; lo stesso non si può dire con sicurezza per gli altri cannabinoidi minori, di cui non si conosce ancora molto riguardo alla trasmissione genica del carattere chemiotipico.
La genetica dell’eredità dei cannabinoidi è stata poco indagata nel passato, ma un importante lavoro è stato svolto negli ultimi anni che ha chiarito le modalità di trasmissione genica tra i due cannabinoidi principali, CBD e Δ9-THC; questi sono in uno status di codominanza genetica (De Meijer et al., 2003; Sytnik e Stelmah 1998).
De Meijer et al. (2003) effettuando diversi incroci tra piante dioiche, chemiotipicamente pure in Δ9-THC con piante chemiotipicamente pure in CBD, e poi analizzando un cospicuo numero di piante della progenie attraverso analisi di Gas-Cromatografia, hanno sempre ottenuto nella F1 tutte piante aventi chemiotipo intermedio CBD/Δ9-THC; da tali piante, attraverso autofecondazione, sono state ottenute progenie F2 con un rapporto di segregazione 1:2:1 (puro CBD, misto CBD/ Δ9-THC e puro Δ9-THC); ciò ha dimostrato un rapporto CBD/Δ9-THC significativamente specifico e trasmissibile in maniera costante dalla F1 alla F2 e proprio per questo motivo è stato proposto un modello caratterizzato da un locus, B, con due alleli, Bd e Bt, presenti in condizione codominante. Il chemiotipo misto è caratterizzato dall’ avere un genotipo Bd/Bt al locus B, mentre i due chemiotipi puri sono caratterizzati dall’ omozigosi al locus B (rispettivamente Bd/Bd e Bt/Bt). Si pensa che tale codominanza sia dovuta alla codifica dei due alleli (Bd e Bt) per differenti isoforme della stessa sintasi, avente differente specificità per la conversione del precursore comune CBG in CBD e Δ9-THC rispettivamente.
Studi genetici applicati ad un vasto numero di accessioni, effettuati da Hillig e Mahlberg (2004), supportano il concetto di due specie in canapa: Cannabis sativa e Cannabis indica, quest’ ultima caratterizzata da valori significativamente più elevati di Δ9-THC e di frequenza dell’allele Bt, il quale codifica l’alloenzima che consente la trasformazione del CBG in Δ9-THC.
La codominanza è stata ulteriormente dimostrata da tale gruppo di studio (De Meijer et al., 2003) effettuando le analisi dei vari gruppi della F2 utilizzando dei RAPD primers, ed in particolare sul chemiotipo misto, trasformando la sequenza caratterizzata da una regione amplificata (SCAR) con markers associati, si è dimostrata sperimentalmente la codominanza genetica. Lo stesso studio parla di un possibile allele B0 legato all’impossibilità di produrre cannabinoidi (“0 cannabinoidi”) o di produrli in quantità molto limitate; la presenza di questo allele potrebbe essere legata all’assenza dell’ enzima GOT che porta all’unione dell’unità fenolica e terpenica da cui viene ottenuto il precursore di tutti i cannabinoidi: il CBG. Il chemiotipo CBG potrebbe essere legato all’esistenza di un carattere recessivo presente nel patrimonio genetico della pianta che non consente di esprimere l’attività enzimatica del Δ9-THC sintasi sul CBG e che porterà alla produzione del Δ9-THC; una pianta di questo chemiotipo produrrà principalmente CBG, CBD in minore proporzione e Δ9-THC generalmente in tracce o del tutto assente. Quindi, mentre è del tutto, o quasi, arrestata l’attività enzimatica che porta alla produzione del Δ9-THC, non avviene la medesima cosa per l’ enzima CBD sintasi, che agisce sul CBG e porta alla produzione di discrete quantità di CBD.
Come già detto, l’azienda britannica GW Pharmaceuticals ottiene infiorescenze dalla coltivazione di cloni ottenute da piante madri ed ha già prodotto numerose linee genetiche stabili nel carattere qualitativo e quantitativo del chemiotipo, inizialmente reperendo popolazioni provenienti da diverse parti del Mondo e successivamente selezionando per il carattere di interesse e fissandolo attraverso autofecondazione ripetuta; in questo modo sono state ottenute le linee “monochemiotipiche”, cioè in grado di bioaccumulare un singolo cannabinoide (Δ9-THC, CBD, CBG, CBC, Δ9-THCV, CBDV e CBGV) o addirittura di non produrne nessuno in quantità rilevabili dalle analisi di gas–cromatografia (“0 cannabinoidi”); quest’ultima linea è interessante sia a scopi clinici, utilizzandola come “placebo”, sia a scopi di genetica agraria, inserendo tale carattere in popolazioni di canapa di tipo tradizionale ad elevata produttività agricola, mentre le linee “monochemiotipiche” assumono notevole importanza negli studi clinici in quanto, producendo isolatamente tali principi attivi, viene evitato il costoso passaggio di purificazione molecolare per poter effettuare i diversi studi clinici sull’ attività dei singoli cannabinoidi.
La costituzione di varietà “monochemiotipiche” o “0 cannabinoidi” assume importanza anche nella sperimentazione agraria in quanto, incrociando le varie linee, si potrebbe effettuare una valutazione a livello genetico dell’ eredità dei caratteri chemiotipici alle varie generazioni, sebbene sono già state dimostrate le leggi d’eredità dei geni associati alla produzione dei due principali cannabinoidi (Δ9-THC e CBD) (De Meijer et al., 2003; Sytnik e Stelmah, 1998).
Gli studi di selezione chemiotipica procedono anche in Italia e vengono portati avanti dal Dott. Grassi presso il C.R.A. sezione I.S.C.I. di Rovigo; sono state già ottenute numerose linee contraddistinte da determinate caratteristiche morfologiche e da un definito e costante patrimonio chemiotipico, reperendo dapprima seme di varie popolazioni europee da fibra o da seme ed in seguito valutandole e selezionando delle piante, da cui per autofecondazioni si ottengono linee monozigoti per i geni di interesse; su alcune di queste linee sono stati effettuati incroci “guidati” per poter valutare gli aspetti della trasmissione genetica di alcuni caratteri.
Tale Istituto è membro partecipante, nella fase di produzione vegetale, in un gruppo di ricerca europeo di spicco nel campo della canapa terapeutica.
Il lavoro di selezione genetica delle linee più produttive in CBD e CBG che andremo ad effettuare non può omettere una buona conoscenza degli aspetti genetici e fisiologici connessi alla manifestazione del sesso nella canapa monoica e dioica; per questo motivo andiamo a riportare le conoscenze acquisite dai vari studi effettuati.
McPhee (1925) ha indotto lo sviluppo di fiori maschili su individui femminili variando il fotoperiodo. Quando questi fiori maschili impollinavano fiori femminili della stessa pianta o di altre piante, la progenie comprendeva solo piante femminili. Successivamente, Hirata (1928) ipotizzò che nella canapa dioica l’ereditarietà del sesso si basa su un meccanismo XY, però questa tesi non fu accreditata per numerose evidenze nelle piante monoiche che indicavano una ben più complessa correlazione tra geni e sesso.
Sono stati effettuati numerosi studi sull’ereditarietà del sesso (Grishko et al., 1937; Hoffmann, 1952; Kohler, 1961).
Grishko et al. (1937) hanno suggerito che il sesso può essere ereditato indipendentemente dall’aspetto fenotipico (o habitus) della pianta; infatti essi hanno attribuito maggiore importanza al portamento della pianta, considerando tutte le piante con abito femminile come geneticamente femmine e tutte le piante con abito maschile come geneticamente maschi, indipendentemente dal tipo di fiori che questi portano. Hoffmann (1952) ha interpretato il fenomeno del monoicismo assumendo un’azione di più geni ad effetto additivo sul sesso e sull’abito di sviluppo della pianta (poligeni), che portano ad una serie di piante più o meno mascolinizzate o femminilizzate.
Kohler (1961) dimostrò ancora una volta un’eredità poligenica del carattere sessuale, che porta ad individui monoici con caratteristiche variabili verso l’una o l’altra forma sessuale.
Alla luce di quest’ultima considerazione, e tenendo conto che il nostro interesse è rivolto alla produzioni di fiori femminili, è importante selezionare al meglio tale carattere in una popolazione monoica oppure lavorare su popolazioni dioiche selezionando gli individui geneticamente femminili.
Rimane però di fatto utile lavorare sulla canapa monoica per la possibilità di effettuare autofecondazioni sulla stessa pianta, quindi di ottenere (mediante isolamento) un seme omozigote rispetto ai caratteri della madre.
I vantaggi presentati dalle piante monoiche rispetto alle dioiche si possono riassumere nei seguenti punti:
• una pianta monoica si presta molto bene ad essere utilizzata in tecniche di autofecondazione attraverso le quali si giunge all’omozigosi, quindi alla “fissazione” di geni utili.
• nella canapa monoica è assicurata la sincronia nella maturazione dei fiori maschili e femminili; questo permette di ottenere una maggiore omogeneità della coltura e quindi una semplificazione del lavoro, limitando i problemi di contaminazione da polline estraneo;
• in una popolazione monoica, ogni pianta è portatrice di seme, quindi si ha un incremento notevole nella produzione del seme rispetto ad una popolazione dioica in cui le piante portatrici di seme sono circa il 50% del totale (solo le piante femmine) e quindi si possono valutare, a parità di spazio, un numero doppio di linee genetiche.
Qualora si abbia una scarsa o assente % di fiori maschili su una pianta monoica che si vuole autofecondare, esiste una procedura in grado di far sviluppare fiori maschili su piante con abito femminile permettendo anche in questo caso l’autofecondazione. Questo è il processo di “Reversione” del sesso e si attua utilizzando una soluzione acquosa di nitrato d’argento.
Esistono dati evidenti indicanti che specifici ormoni endogeni giocano un ruolo importante nell’espressione genetica del sesso (Heslop-Harrison, 1964). Generalmente in varie categorie di piante monoiche e dioiche le gibberelline favoriscono l’espressione sessuale maschile, mentre le auxine, l’etilene e le citochinine promuovono l’espressione sessuale femminile (Mohan Ram, 1980).
Appare molto interessante mostrare le conoscenze acquisite sui livelli ormonali nelle piante di canapa, visto che il metabolismo ormonale sembra avere un posto rilevante nella biosintesi e nel bioaccumulo dei cannabinoidi e può essere spunto per successivi studi di carattere fisiologico, ad esempio considerando in parallelo su popolazioni di cloni, accresciuti in differenti condizioni di sviluppo, i differenti livelli ormonali presenti nelle piante con i livelli di cannabinoidi rilevabili in esse.
I livelli ormonali delle piante di canapa furono indagati nei loro diversi aspetti da Galoch (1978, 1980).
L’ influenza dei regolatori di crescita della pianta nell’espressione del sesso in piante maschili e femminili fu studiata applicando i singoli regolatori, ed in combinazione, sulle sommità differenziate sessualmente: l’acido giberellico induce mascolinizzazione, mentre l’acido indolacetico, l’etilene e le citochinine hanno effetto femminizzante; l’acido abscissico non esercita effetto diretto, ma agisce da antagonista in relazione all’effetto esercitato dall’acido giberellico e dall’acido indolacetico. I risultati di applicazioni combinate di acido indolacetico ed Ethrel con gli altri regolatori di crescita suggerisce che il meccanismo di azione delle auxine e dell’etilene nel controllo dell’espressione del sesso è differente; infatti le auxine, in tale processo, non possono essere considerate solo come agente causale dell’ incremento nella produzione in etilene.
Un altro studio ha riguardato tale influenza sulla differenziazione di organi riproduttivi su cloni di 3 mm ottenuti da piante che si trovavano allo stadio del primo paio di foglie; tali cloni sono stati sviluppati in condizioni sterili e in condizioni di “fotoperiodo corto”. Tra le sostanze provate solo l’acido abscissico ha indotto formazione di organi riproduttivi, ed in particolare, se somministrato da solo, ha portato a sole fioriture maschili, mentre, se vengono incluse nel mezzo le auxine e le citochinine, ha effetto femminizzante. L’acido giberellico riduce il numero di fiori indotti dal trattamento con l’acido abscissico senza modificare il loro sesso. La produzione degli organi riproduttivi è correlata con il numero ridotto di foglie dei cloni all’espianto.
Un altro studio invece ha saggiato la variabilità del livello dei fitormoni in piante maschili e femminili ai differenti stadi di sviluppo, ed esattamente poco prima dell’inizio della fioritura, durante lo sviluppo dei primi abbozzi fiorali e durante la piena fioritura. Sia negli individui maschili che femminili, la transizione alla fase riproduttiva è associata a livelli ormonali crescenti di acido abscissico come inibitore. Le piante femminili mostrano livelli di tale sostanza ormonale ben più alti delle piante maschili e, generalmente, nelle piante femminili sono stati trovati livelli più alti in auxine, mentre nelle piante maschili sono stati trovati livelli più alti in giberelline.
Durante la differenziazione degli organi riproduttivi maschili, il livello di giberelline si riduce, mentre durante la differenziazione degli organi riproduttivi femminili è il livello delle auxine che si abbassa.
Viene dunque suggerito che la formazione degli organi riproduttivi maschili è correlata con una domanda crescente da parte degli abbozzi fiorali per le giberelline, mentre la formazione degli organi riproduttori femminili per le auxine.
La canapa ha già in natura, in condizioni particolari, la capacità di revertire il proprio sesso o di trasformarsi in ermafrodita. E’ stato ipotizzato che l’espressione sessuale dei fiori di canapa sia controllato da un equilibrio tra i livelli endogeni di etilene e gibberelline (Mohan Ram, 1980). Ci sono evidenze che lo ione argento sia un potente inibitore dell’azione dell’etilene e che lo ione cobalto blocchi la sintesi dell’etilene (Beyer, 1976). Il nitrato d’argento ed il cloruro di cobalto hanno mostrato di indurre fiori maschili su piante femminili (Mohan Ram e Sett, 1982); anche l’acido giberellico promuove lo sviluppo di fioriture maschili (Mohan Ram, 1980). L’Ethephon, un composto che rilascia etilene, oltre ad aumentare il numero dei fiori femminili nelle cucurbitacee, induce la formazione di fiori femminili su piante maschili di canapa (Mohan Ram, 1980). L’aminoetossivinilglicina (AVG), un analogo strutturale della rizobitossina, induce la formazione di fiori maschili fertili su piante femminili (Mohan Ram e Sett, 1982) e può inoltre revertire l’effetto dell’Ethephon su piante maschili.
I processi di “Reversione” del sesso ed autofecondazione prevedono una serie di accorgimenti durante l’intera fase colturale: dopo 4-5 settimane di fase vegetativa vengono cimate le piante così da fare sviluppare due rami principali; dopo altre 2-3 settimane di fase vegetativa vengono indotte a fiorire variando il fotoperiodo da 18 a 12 ore di luce giornaliera; a questo punto vengono identificate le piante prevalentemente maschili da quelle prevalentemente femminili (operazione possibile solo alla fioritura). Dopo aver eliminato le piante maschili, su quelle prevalentemente femminili si attua la “Reversione” del sesso distribuendo sulle foglioline di uno dei due rami principali 100 microlitri della soluzione acquosa allo 0,1 % di nitrato d’argento. Dopo alcune ore le piante vengono insacchettate al fine di consentire la traspirazione ma non l’ ingresso di polline estraneo. Dopo circa 2 settimane dall’applicazione le piante avranno già iniziato a produrre fiori maschili e dopo circa 6 settimane è possibile raccogliere il seme, congiuntamente a parte dell’infiorescenza apicale di ogni singola pianta, per le successive analisi di laboratorio sul contenuto in cannabinoidi. Vengono così individuate le piante più produttive, vigorose, con particolari caratteristiche morfologiche e con chemiotipo più interessante le cui progenie verranno allevate nel successivo ciclo.
L’autofecondazione ripetuta consente di raggiungere un elevato grado di omozigosi, permettendo la fissazione nel genotipo di determinati caratteri e di ottenere linee stabili per i caratteri selezionati. Uno svantaggio dell’autofecondazione ripetuta è la “depressione da inbreeding”, i cui effetti negativi sobno solo parzialmente attenutati dalla selezione delle piante più vigorose.
Ai fini selettivi per scopi terapeutici, le popolazioni di canapa più interessanti appaiono quulle coltivate per fini “illeciti”; infatti, essendo caratterizzate da elevati contenuti % in cannabinoidi totali e, pertanto, da una spiccata attività dell’enzima GOT, potrebbero essere sfruttate a fini di selezione isolando le piante contenenti i geni segreganti che portano alla produzione dei singoli cannabinoidi di interesse (Δ9-THC, CBD, CBG, CBC) in elevati contenuti %; da queste popolazioni sarebbe possibile riuscire ad isolare delle linee che producono in abbondanza gli omologhi propilici dei cannabinoidi maggiori, visto che esse tendono a produrre un più ampio range di cannabinoidi rispetto alle popolazioni lecite, le quali sono state selezionate nel corso dei secoli per i bassi contenuti % di cannabinoidi totali.
Lavorando con popolazioni lecite (da fibra o da seme), caratterizzate da più bassi contenuti % in cannabinoidi totali e quindi generalmente caratterizzate da una più blanda attività dell’ enzima GOT, è logico iniziare la selezione isolando le piante che contengono i geni segreganti che portano a maggiori produzioni in contenuto % di determinati cannabinoidi (CBD, CBG, CBC), i quali vengono generalmente prodotti da dette popolazioni in concentrazioni medio – basse; in questo caso la selezione di piante è associata alla selezione di geni segreganti che conferiscono sia una spiccata attività all’ enzima GOT che agli enzimi specifici che agiscono sul CBG, convertendolo negli altri cannabinoidi.
La sperimentazione ha avuto lo scopo di acquisire informazioni sulle principali caratteristiche di 20 linee “monochemiotipiche” (in grado di produrre esclusivamente Cannabidiolo - CBD o Cannabigerolo – CBG) di canapa e di due progenie clonali e di valutarne il comportamento, in termini di parametri biometrici e, sopratutto, di concentrazioni percentuale in cannabinoidi, al variare di alcuni aspetti dell’agrotecnica (substrato e concimazione) nonché di ampliare le conoscenze sulle variazioni del contenuto in cannabinoidi nelle foglie durante il ciclo biologico su progenie clonali derivate da due piante madri selezionate per l’elevato contenuto in CBD e Δ9-THC esenti.
2. MATERIALI E METODI
L’attività di ricerca è stata articolata in due distinte prove (Prova 1 e Prova 2).
In ambedue le sperimentazioni sono stati valutati i seguenti trattamenti:
T1. substrato: mix di vari tipi torba (f.c. - Floradur); concimazione: minerale (in prevalenza azotata in fase vegetativa e fosfo-potassica in fase di fioritura)
T2. substrato: fibra di cocco (f.c. - Coco); concimazione: formulati specifici Coco A e Coco B ) forniti dalla ditta produttrice del substrato
T3. substrato: torba bianca e compost di cortecce (f.c. - Terra Professional +); concimazione: formulati specifici (Terra Vega - fase vegetativa e Terra Flores - fase fioritura) forniti dalla ditta produttrice del substrato
T4. substrato: torba bianca e compost di cortecce (f.c. - Terra Professional +); concimazione: formulati specifici ammessi in agricoltura biologica (Bio Vega - fase vegetativa e Bio Flores - fase fioritura) forniti dalla ditta produttrice del substrato
Fig. 2.1: Substrati e fertilizzanti utilizzati nelle sperimentazioni
Il substrato Floradur (tesi T1) è una miscela di torba nera (in % più abbondante), torba bionda, torba bruna e sabbia quarzosa provenienti dalla Germania settentrionale; è un substrato concimato con tutti i principali elementi nutritivi ed oligoelementi.
Il substrato Coco (tesi T2) è costituito al 100 % da fibra di cocco, ottenuta dalla lavorazione del cocco in India, ed il cui processo di produzione viene effettuato sotto lo stretto controllo della ditta produttrice. Si tratta di un prodotto organico, omogeneo nella struttura, senza aggiunte di concimi, composto per il 45 % da cellulosa, e per questo motivo le sue caratteristiche fisiche si conservano a lungo nel tempo e può essere utilizzato per diversi cicli colturali.
Il substrato Terra Professional + (tesi T3 e T4) è composto da elementi organici al 100 %, ed in particolare da torba bianca di elevata qualità a cui vengono aggiunte cortecce d’albero appositamente compostate, e concimato con tutti i principali elementi nutritivi ed oligoelementi.
Fig. 2.2: Substrati utilizzati
La concimazione è stata differenziata nelle diverse fasi del ciclo biologico della coltura:
- fase vegetativa: apporti consistenti in N e moderati in P e K;
- fase inizio fioritura: apporti elevati in P e K e moderati in N;
- fase fine fioritura: apporti in P e K.
Oltre ai rispettivi concimi, tutte le tesi sono state coadiuvate durante il ciclo colturale con i seguenti prodotti:
- durante i primi giorni: “Rhizotonic” (4 ml/l): stimolatore dell’apparato radicale (con azione di regolazione della crescita, incremento della resistenza a muffe e a batteri dannosi);
- durante tutto il ciclo colturale con cadenza settimanale: “Cannazym” (2,5 ml/l): preparato enzimatico (circa 15 enzimi diversi, vitamine specifiche ed estratti di piante desertiche) che migliora l’assimilazione delle sostanze nutritive aumentando la resistenza delle piante agli agenti patogeni;
- coadiuvanti: in due somministrazioni (uno alla fine della fase vegetativa ed uno durante la fase della fioritura): “Mg” (solfato di Mg liquido, con 7 % in MgO e 14 % SO3), “Ca” (sostanza fertilizzante liquida al Ca, con 15 % in Ca) e “Tracce Mix” (miscela liquida di oligoelementi, con: 0,06 % Fe (DTPA e EDDHA), 0,07 % Mo, 0,06 % Cu, 0,6 % Mn, 0,3 % B e 0,3 % Zn), per sopperire ad eventuali carenze in meso e microelementi.
“Prova 1”
La Prova 1 è stata effettuata presso una serra dell’ Istituto Tecnico Agrario “Kennedy” (Monselice - PD).
Sono state valutate 20 linee inbreed di canapa monoica selezionate da varietà da fibra e da seme per determinate caratteriche morfologiche e sopratutto chemiotipiche (basso contenuto % in Δ9-THC e da basso ad alto in CBD e CBG), ed i cui caratteri peculiari sono stati fissati attraverso autofecondazione ripetuta (“inbreeding”), ottenuta mediante “reversione del sesso” di piante con abito prevalentemente femminile.
Scopo del lavoro effettuato in tale prova è stato quello di identificare linee “monochemiotipiche” in grado di produrre esclusivamente Cannabidiolo (CBD) o Cannabigerolo (CBG), nonché di valutarne la risposta al variare delle condizioni colturali (substrati e concimazioni).
La semina è stata effettuata il 2/8/2004 in cubetti di torba pressata, e dopo una settimana circa le plantule sono state trapiantate in vasi da 5 litri, precedentemente invasati con i rispettivi substrati.
I vari concimi corrispondenti al loro “pacchetto di coltivazione” sono stati distribuiti con gli interventi irrigui, in coincidenza delle le principali fasi fenologiche (fase vegetativa, fase inizio fioritura e fase fine fioritura), seguendo le indicazioni fornite dalle ditte produttrici. I quantitativi di elementi nutritivi complessivamente distribuiti per vaso, distintamente per ciascun trattamento, sono riportati nella tabella 2.1 .
Le 4 tesi sono state disposte in 4 file binate distanziate di circa 1 metro, con le piante omogeneamente disposte sulla fila ad una distanza di circa 40 cm (25 bine per singola fila). Data la breve durata del giorno (13-12 ore di luce giornaliere) già agli inizi della fase colturale di tale prova, è stato adottato un sistema d’illuminazione automatizzato con 20 lampade da 60 watt, equamente distanziate lungo la fila e tra le fila e tutte ad una altezza di circa 2,5 metri dal suolo, in grado di aumentare la durata della fase luminosa, ed evitare una precoce induzione fiorale.
Tab. 2.1: Elementi nutritivi complessivi distribuiti (g per vaso), distintamente per trattamento applicato.
Trattamento N P2O5 K2O CaO MgO
T1 0,054 0,029 0,031 0,028 0,024
T2 0,176 0,173 0,140 0,269 0,105
T3 0,169 0,126 0,290 0,023 0,078
T4 0,130 0,098 0,267 0,068 0,025
Il periodo di “fotoperiodo lungo” (18 ore complessive di luce, di cui 13-12 ore di luce naturale e 5-6 ore di luce artificiale) è stato mantenuto dalla semina fino al 14/9 (data in cui buona parte delle piante aveva raggiunto un adeguato sviluppo), a cui ha fatto seguito una fase a “fotoperiodo corto” (complessivamente 12-11 ore di luce naturale) fino alla raccolta.
Durante la fase vegetativa le piante sono state sostenute con sottili canne di bambù a cui le piante venivano gradualmente legate per mezzo di una legatrice.
I substrati di tutte le tesi sono stati mantenuti costantemente in condizioni d’umidità prossima alla capacità di campo attraverso un impianto di d’irrigazione automatico.
Fig.2.3: Panoramiche del dispositivo sperimentale “Prova 1”
La prova è stata interrotta ad uno stadio anticipato rispetto al presunto ottimale (circa 15-20 giorni di anticipo) in quanto si è verificata una continua ed esasperata presenza di giornalisti e media televisivi, regionali e nazionali, attirati e stimolati dal parere “etico” di alcuni politici regionali poco conoscenti in materia agricola ma molto conoscenti dell’ arte di far cronaca; l’ argomento dell’ attività di ricerca e la sede di coltivazione scelta per la prova (una scuola superiore) hanno suscitato un’ acceso dibattito politico e mediatico sulla sperimentazione agricola e medica della canapa, facendo anche intervenire nel luogo della coltivazione il Presidente della Regione Veneto alla notizia dell’anticipata estirpazione delle piante annunciata e voluta dal sottoscritto e dal Dott. Grassi, benché tale prova era stata previamente e regolarmente autorizzata dal Ministero ai sensi dell’ art. 26 D.P.R. n. 309/90 (Coltivazione di canapa a scopi sperimentali).
La raccolta delle piante è stata effettuata il 18/10/2004. Le piante raccolte sono state essiccate in una stanza oscura con valori di temperatura ed umidità controllati e costanti. Dopo 10 giorni, allorquando le biomassa presentavano una umidità residua pari a circa il 20 %, è stato effettuato il campionamento del materiale vegetale ed eseguite le varie rilevazioni biometriche (altezza, diametro e biomassa complessiva ripartita nelle singole componenti: fusti, foglie + fiori, distintamente per singola pianta).
Il campionamento del materiale vegetale per effettuare la gas-cromatografia è stato effettuato adottando il seguente protocollo:
- prelievo di circa 0,5 g dall’apice fiorale principale di ogni pianta;
- macinazione e omogeneizzazione dei campioni fino ad ottenere un materiale vegetale in polvere così da aumentare la superficie di contatto con il solvente di estrazione e la sua conseguente efficienza estrattiva;
- pesatura di 80 milligrammi di materiale vegetale e stoccaggio in Vial da 4 mm.
Determinazione del contenuto in cannabinoidi
L’estrazione dei cannabinoidi dagli 80 mg è stata effettuata utilizzando come solvente n-esano e come standard interno lo squalene; il solvente di estrazione è stato preparato per tempo e conservato in frigorifero; ad ogni litro di n-esano è stata aggiunta una quantità di 0,1 grammi di squalene in modo da avere una concentrazione di quest’ultimo pari al 0,01 %.
Ad ogni campione sono stati aggiunti 4 mm di solvente d’estrazione, e i Vial sono stati richiusi immediatamente onde evitare l’evaporazione o la possibile contaminazione.
L’estrazione è stata effettuata con la disposizione dei campioni in bagno ad ultrasuoni per 15 minuti ed a una temperatura di 60 °C. Successivamente i campioni sono stati lasciati a temperatura ambiente per un tempo sufficiente a riportare la temperatura ai valori ambientali.
1 ml dell’estratto vegetale è stato posto in provette da 1,5 ml e sottoposto a centrifugazione per 10 minuti alla velocità di 4.000 giri per minuto, in modo da separare la frazione liquida da quella solida.
Le fasi di estrazione e di analisi di gas-cromatografia sono state eseguite seguendo i metodi ufficiali UE (Reg. 796/2004).
L’apparato di gas-cromatografia utilizzato è un Chrompack CP 9001, abbinato ad un integratore-rilevatore Shimadzu CR6A.
È stato utilizzato il rapporto di splittaggio 1:30 ed il programma 4 con le seguenti impostazioni:
- T. forno= da 240 °C a 300 °C con il seguente profilo: 240 °C stabile (2 minuti); fase di separazione da 240 °C a 270 °C (3 minuti, incremento 10 °C/minuto); 270 °C stabile (2 minuti); fase di separazione da 270 °C a 300 °C (3 minuti, incremento 10 °C/minuto); 300 °C stabile (5 minuti); fase di raffreddamento da 300 °C a 240 °C (tempo più veloce di raffreddamento); 240 °C stabile (1 minuto);
- T. iniezione=320 °C;
- T. rilevazione=320 °C;
- Gas elio: 2,8 bar;
- Gas idrogeno: 1,8 bar;
- Aria: 1,5 bar.
Con tale programma di gas-cromatografia i picchi principali sono già ben identificabili e ciò consente di effettuare un buon numero di analisi giornaliere.
Nello specifico delle nostre analisi i tempi di uscita in minuti dei cannabinoidi sono stati: CBD=5,01; Δ9-THC=5,74; CBG=6,13.
I dati delle gas-cromatografie vengono letti direttamente da un rilevatore collegato all’ apparato di gas-cromatografia, il quale stampa in cartaceo il cromatogramma ed i valori caratteristici di ogni singolo campione.
“Prova 2”
Le piante utilizzate sono dei cloni derivati da due piante madri (E1 ed E7) selezionate per l’elevato contenuto in CBD. La sperimentazione è stata effettuata presso l’Istituto Sperimentale Colture Industriali Sezione Operativa Periferica Rovigo, in una piccola serra su di un bancale di metri 4 x 1,60 (6, 40 m2). I substrati ed i concimi utilizzati per tale prova sono gli stessi utilizzati per la “Prova 1”, così come i prodotti coadiuvanti. In data 4/10/2004 le progenie clonali E1 ed E7 (24 e 44 piante rispettivante) sono state travasate in vasi da 2 litri (dimensioni 12 x 12 x 20 cm).
La disposizione dei cloni sul bancale è avvenuta con la composizione di 12 file, di cui 4 file E1 (ogni fila una tesi con 6 cloni) e 8 file E7 (una fila con 6 ed una fila con 5 cloni per tesi). I cloni sono stati mantenuti ad una distanza di circa 20 cm sulla fila e 20 cm tra le fila, ed opportunamente movimentati durante l’intera fase colturale lungo le fila della tesi di appartenenza.
Data la breve durata del giorno (11-12 ore di luce giornaliera) nella fase di avvio della prova, il bancale è stato dotato di 6 lampade equamente distanziate (ad una altezza di circa 1,50 metri dalla superfice del bancale) in grado di aumentare la durata della fase luminosa, ed evitare una precoce induzione fiorale. Il periodo di “fotoperiodo lungo” (18 ore complessive di luce, di cui circa 12-11 ore di luce naturale e 6-7 ore di luce artificiale) è stato mantenuto dal travaso fino al 2/11/2004 (data in cui i cloni avevano raggiunto dimensioni tali da consentire una buona fioritura), per poi essere seguito da una fase a fotoperiodo corto (circa 11-10 ore di luce naturale) fino alla raccolta.
Dall’inattivazione dell’illuminazione artificiale alla comparsa dei primi abbozzi fiorali sono passati circa 7 giorni; in data 12/11/2004 tutti i cloni hanno iniziato a differenziare abbozzi fiorali. I cloni E1 hanno mostrato una maggiore precocità di induzione rispetto ai cloni E7 (un giorno circa).
Durante la fase vegetativa le piante sono state sostenute con sottili canne di bambù a cui le piante venivano gradualmente legate per mezzo di una legatrice.
I quantitativi di elementi nutritivi complessivamente distribuiti per vaso, distintamente per ciascun trattamento, sono riportati nella seguente tabella:
Tab. 2.2: Elementi nutritivi complessivi distribuiti (g per vaso), distintamente per trattamento applicato.
Trattamento N totale P2O5 K2O CaO MgO
T1 0,162 0,039 0,042 0,045 0,053
T2 0,322 0,460 0,410 0,480 0,186
T3 0,333 0,386 0,718 0,030 0,147
T4 0,267 0,346 0,721 0,123 0,042
In analogia a quanto riporto per la prova 1, i substrati di tutte le tesi sono stati mantenuti costantemente in condizioni d’umidità prossima alla capacità di campo attraverso un impianto di d’irrigazione automatico.
A partire dalla quinta settimana è stato acceso il riscaldamento della serra così da mantenere la temperatura minima al di sopra di 17 °C e consentire il completamento del ciclo biologico.
La raccolta delle piante è stata effettuata il 14/1/2005, alla fase fenologica di piena maturazione delle infiorescenze, e con una discreta produzione in acheni vitali.
I dati rilevati e le relative metodologie adottate sono analoghe a quelle adottate nella prova precedente, fatta eccezione per il rilievo sulle componenti della biomassa delle singole piante, che in questo caso è stato eseguito ripartendo la porzione epigeica in fusti, foglie e fiori.
Inoltre, al fine di acquisire informazioni sulle variazioni del contenuto in cannabinoidi nelle foglie durante il ciclo biologico, è stata prelevata, in coincidenza dell’inizio della fioritura e con cadenza di 15 giorni, da ciascuna pianta, partendo dall’apice, la prima foglia completamente espansa, sulla quale è stato determinato, adottando la metodica precedentemente descritta, il contenuto di cannabinoidi.
I risultati ottenuti in ambedue le prove sono stati sottoposti all’analisi della varianza secondo il modello sperimentale adottato; quando il test F è risultato significativo (P≤0,05) è stato utilizzato il Fischer protected LSD per evidenziare le differenze tra le medie.
Altezza - Nella fig. 3.1 sono riportati i valori medi dell’altezza delle piante di canapa per effetto dei differenti “pacchetti di coltivazione” adottati. I valori più elevati sono stati rilevati con l’utilizzo del substrato 3, sia con l’impiego di concimi minerali che biologici (rispettivamente tesi T3 e T4); la tesi T2 ha indotto una significativa riduzione della taglia delle piante mentre nel controllo (T1) sono state rilevate altezze intermedie. I risultati negativi della tesi T2 vanno presumibilmente collegati a carenze nutrizionali (prevalentemente azotate) evidenziatesi nelle prime fasi del ciclo biologico (internodi raccorciati e foglie clorotiche) e alla elevata concentrazione salina del substrato (la Ditta consiglia infatti un abbondante drenaggio iniziale prima del suo utilizzo, azione da noi omessa). Inoltre va evidenziato che carenze azotate sono state rilevate anche nel controllo (T1) a partire dalla fase di fioritura concretizzatasi in una fillotassi accentuata ed in estesi ingiallimenti fogliari.
Le linee inbred in prova hanno mostrato un’ampia variabilità per il carattere in esame (differenze significative per P< 0,0001); infatti la taglia (fig. 3.2), in media pari a 118 cm, è risultata compresa tra valori di poco superiori a 50 cm (linee 634 e 635) e di oltre 170 cm (linea 778).
Le linee in prova hanno mostrato stabilità di comportamento al variare del pacchetto di coltivazione adottato (interazione non significativa).
Diametro del fusto - Risultati analoghi, per effetto dei trattamenti applicati, sono stati rilevati a carico del diametro medio del fusto delle piante (fig. 3,3). Infatti, i valori più elevati sono stati registrati nella tesi T3 (ø medio 0,56 cm) quelli più bassi nella tesi T2 (ø medio 0,36 cm). È inoltre interessante rilevare come l’analisi dei dati abbia evidenziato una correlazione positiva e significativa tra taglia delle piante e diametro del fusto (r=0,60; P≤0,05).
Differenze significative sono state rilevate tra le linee in prova per il carattere in esame (fig. 3,4); le linee 453 e 635 si sono caratterizzate per un diametro medio inferiore a 0,3 cm, mentre 7 linee hanno fatto registrare un diametro superiore a 0,5 cm; il valore più elevato è stato ottenuto dalla linea 666 (ø medio 0,62 cm).
Anche in questo caso l’interazione linea x trattamento non ha raggiunto la significatività statistica.
Biomassa - La produzione di biomassa epigeica complessiva è risultata pari ad oltre 30 g per pianta nella tesi T3 (fig. 3.5); valori significativamente inferiori sono stati rilevati nelle tesi T1 e T4 (26 e 28 g per pianta circa rispettivamente) mentre, in analogia a quanto riportato per i parametri morfologici, il peso medio per pianta più basso è stato riscontrato nella tesi T2. Tale parametro è, infatti risultato correlato positivamente e significativamente con l’altezza (r=0,81; P≤0,01) e con il diametro medio del fusto (r=0,78; P≤0,01). Analizzando le singole componenti della produzione (fig. 3.7 e 3.9) è possibile evidenziare come l’incidenza del fusto sulla biomassa complessiva sia risultata pari al 37% circa in tutti i trattamenti applicati ad eccezione della tesi T2 dove sono stati riscontrati valori pari al 28% circa. D’altra parte, nella tesi T2 carenze nutrizionali hanno determinato, come detto, effetti depressivi nello sviluppo delle piante (internodi raccorciati e foglie clorotiche).
Le linee inbred in prova hanno mostrato un’ampia diversificazione per produttività sia complessiva che disaggregata nelle singole componenti (fig. 3.6, 3.8 e 3.10). La biomassa epigeica complessiva è risultata compresa tra valori superiori a 37 g per pianta (linea 1098) ed inferiori a 10 g per pianta (linea 453). L’incidenza del fusto è risultata di poco superiore al 20% nelle linee meno produttive (linee 453 e 635, caratterizzate peraltro da un limitato sviluppo diametrico del fusto) mentre valori superiori al 40% sono stati rilevate nelle linee 1098, 778 e 666, caratterizzate tutte da una produzione epigeica complessiva prossima o superiore a 30 g per pianta.
Analogamente a quanto riscontrato per i caratteri biometrici, l’interazione l’interazione linea x trattamento non ha mai raggiunto la significatività statistica.
Contenuto in cannabinoidi - I diversi “pacchetti di coltivazione” adottati hanno determinato variazioni contenute, pur se significative all’analisi statistica, sul contenuto in Cannabidiolo (CBD) nelle infiorescenze (fig. 3.11). I valori più elevati, pari ad circa 2,17% sulla sostanza secca, sono stati registrati con l’utilizzo del substrato 3 e con l’impiego di concimi biologici (tesi T4). Il contenuto in CBD, negli altri trattamenti è risultato compreso tra 1,66% e 1,87% (rispettivamente nelle tesi T1 e T3). Complessivamente i valori ottenuti sono risultati inferiori a quelli attesi e ciò, come detto, va presumibilmente imputato all’anticipo dell’epoca di raccolta (circa 15-20 giorni) rispetto al presunto ottimale.
Al contrario è stata riscontrata una ampia e significativa variabilità nella biosintesi e nel bioaccumulo del cannabidiolo tra le linee in valutazione (fig. 3.12), lasciando ipotizzare ampi margini di miglioramento, per il carattere in questione, mediante appositi programmi di breeding; i valori rilevati sono infatti risultati compresi tra 0,4% (linea 634) e 3,3% (linea 778). Nessuna relazione significativa è emersa tra contenuto in CBD e parametri produttivi e morfologici.
Il contenuto in Δ9-THC, unico cannabinoide dei 60 prodotti dalla Cannabis sativa, che induce effetti psicotropi, è risultato sempre estremamente basso (fig. 3.13); il valore più elevato è stato osservato, anche in questo caso con l’utilizzo del substrato 3 e con l’impiego di concimi biologici (tesi T4; 0,075% s.s.). è inoltre interessante rilevare come sullo stesso substrato l’impiego di fertilizzanti minerali (T3) abbia condotto a valori significativamente inferiori (0,045% s.s.). Nelle altre tesi sono stati riscontrati valori intermedi (0,051 e 0,058%, rispettivamente nelle tesi T1 e T2).
Tra le linee in prova nessuna ha oltrepassato il limite di 0,2% s.s. di Δ9-THC (fig. 3.14), soglia questa che discrimina una varietà da canapa da fibra da una per droga ai fini della concessione del contributo. È inoltre interessante da rilevare come in molte linee il contenuto in Δ9-THC sia risultato inferiore allo 0,1% s.s. e come le linee 634, 635 e 666 siano risultate Δ9-THC esenti.
Inoltre, in accordo con quanto rilevato da Small e Beckstead (1973) è stata riscontrata una stretta relazione tra CBD e Δ9-THC.
I diversi pacchetti di coltivazione non hanno influito in modo statisticamente apprezzabile sul contenuto in Cannabigerolo (CBG), risultato compreso tra 0,26% e 0,36%, rispettivamente nelle tesi T1 e T3 (fig. 3.15). Le linee in prova hanno presentato valori di CBG sempre inferiori a 0,2% (fig. 3.16), ad eccezione delle linee 633, 634, 635 e 666; linee queste caratterizzate peraltro da bassi valori in CBD ed esenti in Δ9-THC (ad eccezione della linea 633 che ne ha presentato tracce).
Ciò può essere imputato alla totale assenza o inattività dell’ enzima specifico che converte il CBG in Δ9-THC, ed una parziale presenza o attività di detto enzima nelle linee a maggiore contenuto in CBD.
Prova 2
Come già illustrato la prova è stata finalizzata a valutare la risposta di due progenie clonali al variare di alcuni aspetti dell’agrotecnica (substrato di coltivazione e concimazione).
Caratteri morfologici – I risultati relativi agli effetti delle variabili agronomiche adottate sull’altezza delle piante e sul diametro medio del fusto sono riportati nelle fig. 3.17 e 3.18. Le migliori performance sono state ottenute con l’utilizzo del substrato 3 con l’impiego di concimi minerali (tesi T3) e con il substrato costituito da fibra di cocco associato a formulati nutritivi specifici forniti dalla ditta produttrice (tesi T2). In quest’ ultimo caso i risultati appaiono in netto contrasto con quanto ottenuto nella prova 1, e vanno presumibilmente collegati alle maggiori dosi di concime azotato somministrato durante la fase iniziale del ciclo biologico e al corretto trattamento del substrato prima del trapianto (lavaggio dilavante, omesso nella prova 1). Valori significativamente inferiori sono stati ottenuti nelle tesi T1 (torba + concimi minerali) e T4 (substrato 3 + concimi specifici biologici), trattamenti questi caratterizzati dai minori apporti azotati complessivi. I vantaggi offerti dall’incremento delle disponibilità azotate (naturali o da concime) sulle rese e sui parametri biometrici delle piante, in prevalenza da fibra, erano già stati evidenziati in precedenti ricerche (Amaducci et al., 2002; Di Candilo et al., 1996).
Relativamente ai genotipi in prova, la progenie clonale E7 ha fatto registrare una maggiore taglia ed un maggiore sviluppo diametrico del fusto rispetto alla progenie clonale E1, con differenze sempre significative all’analisi statistica.
Biomassa epigeica e sue componenti – I trattamenti applicati hanno determinato sulla produzione di biomassa epigeica complessiva per pianta (fig. 3.19) effetti analoghi a quelli descritti per i caratteri morfo-strutturali; ad eccezione della tesi T4 che ha fornito rese superiori a quelle della tesi T1 (andamento opposto era stato rilevato per l’altezza ed il diametro del fusto). Appare inoltre interessante evidenziare come le produzioni medie per pianta siano risultate sensibilmente inferiori a quelle registrate nella Prova 1 (11,5 vs 25,7) nonostante le piante di canapa abbiano presentato nelle due prove analoga taglia e sviluppo diametrico del fusto. Le differenze osservate vanno certamente collegate alla diversa entità delle ramificazioni riscontrata nelle due prove (piante abbondantemente ramificate nella Prova 1 e monostelo nella Prova 2) determinata dalla differente distanza tra i vasi (maggiore nella Prova 1).
I trattamenti applicati, tuttavia, hanno determinato variazione consistenti sulle componenti della produzione (fig. 3.20, 3.21 e 3.22); infatti, mentre l’incidenza percentuale dei fiori sulla biomassa complessiva non è variata in maniera apprezzabile tra i diversi trattamenti (range compreso tra 24 e 27% circa), nella tesi T1 l’incidenza percentuale del fusto è risultata marcatamente più elevata rispetto a quanto osservato negli altri trattamenti (37% vs. 28% in media altre tesi). Ovviamente a ciò hanno corrisposto analoghe differenze nell’incidenza percentuale delle foglie. Tale risultato va attribuito agli effetti depressivi indotti da carenze azotate determinatesi nella tesi T1, che si sono concretizzate in un limitato sviluppo dell’apparato fotosintetizzante.
Nessuna differenza apprezzabile statisticamente è emersa tra le due progenie in prova in termini di biomassa epigeica sia complessiva che ripartita nelle singole componenti.
Contenuto in cannabinoidi – Come già detto, il protocollo di questa prova ha previsto l’uso di cloni monochemiotipici con elevato contenuto in CBD e bassa presenza di Δ9-THC e CBG.
Il contenuto in CBD nei fiori è variato significativamente in rapporto ai trattamenti applicati (fig. 3.23). Sono stati osservati valori compresi tra 3,6% e 4,8% (rispettivamente nelle tesi T2 e T1). Il contenuto % in CBD si è ridotto progressivamente all’aumento della produzione di fiori per pianta; è stata infatti rilevata una relazione altamente significativa tra i due parametri (fig. 3.24). Tale risultato è in accordo con quanto riportato da Krejci (1970), Coffman e Genter (1975) e Bòcsa et al. (1997) i quali hanno riscontrato come il contenuto in cannabinoidi sia negativamente correlato con la disponibilità di nutrienti nel suolo; gli stessi autori hanno anche evidenziato che gli stress abiotici in genere, deprimendo l’accrescimento, influiscono indirettamente e positivamente sull’accumulo dei cannabinoidi; nella nostra sperimentazione i valori percentuali in CBD più elevati sono stati riscontrati, come detto, nella tesi T1, trattamento questo caratterizzato dai più bassi quantitativi di elementi fertilizzanti somministrati.
Tuttavia l’incremento percentuale in CBD osservato nella tesi T1 non ha compensato la minor produzione di fiori per pianta; infatti dall’analisi della fig. 3.24 si evidenzia come il quantitativo complessivo di cannabidiolo prodotto per pianta sia risultato in questa tesi (0,09 g/pianta) marcatamente inferiore rispetto a quello osservato negli altri trattamenti, che peraltro hanno mostrato variazioni nel complesso contenute (range 0,12-0,13 g/pianta).
Relativamente ai genotipi in prova, la progenie clonale E7 ha presentato un contenuto medio di cannabidiolo statisticamente superiore (4,5%) rispetto a quello rilevato nella progenie clonale E1 (3,5%).
I contenuti in CBG e Δ9-THC (fig. 3.25 e 3.26) sono risultati, come atteso, sempre estremamente modesti (in entrambi i casi prossimi a 0,1%) pur se sono emerse differenze significativamente apprezzabili per effetto delle variabili agronomiche adottate.
Nelle fig. 3.27 e 3.28 sono riportate le variazioni del contenuto % in CBD e Δ9-THC nelle foglie durante il ciclo biologico; per entrambi i cannabinoidi, dopo un iniziale incremento dei valori percentuali, sono state osservate progressive riduzioni con andamenti analoghi per effetto delle variabili agronomiche adottate. Ciò è presumibilmente collegato ai processi di senescenza delle foglie in accordo con quanto rilevato da Turner et al., (1980 e 1985) e Bòcsa et al. (1997). Un’altra spiegazione potrebbe risiedere nell’esistenza di possibili processi di traslocazione di tali composti dalle foglie ai fiori; tali ipotesi tuttavia dovrebbero trovare conferma attraverso l’avvio di apposite ricerche.
4. CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE
L’attività di ricerca condotta (Prova 1) ha consentito di acquisire informazioni sulle principali caratteristiche di 20 linee inbred di canapa e di valutarne il comportamento in termini di parametri biometrici e, sopratutto, di concentrazioni % in cannabinoidi, al variare di alcuni aspetti dell’agrotecnica.
È stata riscontrata un’ampia variabilità tra le linee in esame, che peraltro hanno mostrato una notevole stabilità di risposta al variare dei trattamenti applicati (interazione non significativa). È stato così possibile selezionare 4 linee (778, 1098, 1100 e 1101) più stabili nel profilo chemiotipico e più interessanti per la produttività in CBD; inoltre è stato possibile individuare 2 linee (634 e 635) caratterizzate da elevato contenuto percentuale di Cannabigerolo (CBG).
Da notare che mentre le linee ad alto o medio contenuto in CBD hanno fatto rilevare una certa presenza (seppur contenuta) in Δ9-THC, le linee CBG sono risultate Δ9-THC esenti. Ciò può essere imputato alla totale assenza o inattività dell’enzima specifico che converte il CBG in Δ9-THC, ed una parziale presenza o attività di detto enzima nelle linee a maggiore contenuto in CBD.
Relativamente alla prova 2, nella quale è stata valutato il comportamento di due progenie clonali selezionate da piante madri monochemiotipiche a profilo CBD, è emersa la maggiore produttività del clone E7 che si è caratterizzato per un contenuto medio di cannabidiolo (4,5%) statisticamente superiore rispetto a quello rilevato nella progenie clonale E1 (3,5%). I contenuti in CBG e Δ9-THC sono risultati, come atteso, sempre estremamente modesti (in entrambi i casi prossimi a 0,1%) pur se sono emerse differenze significativamente apprezzabili per effetto delle variabili agronomiche adottate.
Le linee selezionate in entrambe le prove saranno utilizzate in successive fasi di selezione e di miglioramento genetico. Infatti, l’individuazione di linee monochemiotipiche con contenuto in Δ9-THC ridotto o nullo, rappresenta certamente il presupposto essenziale affinché sia concessa l’autorizzazione a produrre estratti naturali di cannabinoidi non psicotropi ad azienda farmaceutiche italiane e far sì che possa avviarsi anche nel nostro Paese la sperimentazione clinica sull’uso dei cannabinoidi, psicotropi e non, al fine di consentire il sollievo sintomatico ed il miglioramento della qualità della vita dei pazienti che non traggono uguali benefici dalle terapie attualmente riconosciute.
Il lavoro svolto nelle due prove ha messo in evidenza una significativa variabilità nella biosintesi e nel bioaccumulo dei cannabinoidi, ed anche dei vari parametri biometrici, al variare del “pacchetto di coltivazione” (substrato + concimazione).
I più alti livelli di concentrazione % in cannabinoidi si sono ottenuti con i “trattamenti” caratterizzati da un limitato apporto di elementi fertilizzanti, evidenziando, a conferma da quanto ottenuto in precedenti sperimentazioni, che gli stress abiotici in genere, deprimendo l’accrescimento, influiscono indirettamente e positivamente sull’accumulo dei cannabinoidi. Infatti, i risultati indicano con chiarezza che il contenuto percentuale in CBD si riduce progressivamente all’aumento della produzione di fiori per pianta.
Infine, dal confronto tra le tesi T3 e T4, caratterizzate da uguale substrato ma da differenti tipologie di concime utilizzato, rispettivamente minerale ed organico, emerge come l’impiego di fertilizzanti organici determini incrementi nella concentrazione % in cannabinoidi e riduzioni significative di resa; tuttavia, la produzione in CBD per pianta, calcolata sulla base dei due parametri citati, non è variata in modo significativo tra i due trattamenti. Tale risultato rappresenta un buon presupposto per l’adozione di modelli di coltivazione biologica della canapa per usi terapeutici.
La ricerca ha inoltre messo in evidenza un graduale decremento delle concentrazioni percentuali in cannabinoidi nelle foglie con il progredire della fase riproduttiva; ciò è presumibilmente collegato ai processi di senescenza delle foglie ma potrebbe anche essere legato a processi di traslocazione dei metaboliti verso le infiorescenze. Tale aspetto meriterebbe ulteriori approfondimenti sperimentali.
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VEDI SMIGOLS...E' PROPRIO COME DICEVI TU PRIMA DI CONOSCERE LE TEORIE DI LIEBIG E DI REZDOG......MEGLIO LETAME E HUMS SOLTANTO CHE I CONCIMI SPECIFICI MINERALI!!!!!
ORA SHHHHHHHHHHHHH!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!! E INGESSATI LE DITA!!!!!
ciao g.a. ...lo dice durante l'articolo ....i semi con alti valori di thc sono stati forniti dal ministaro olandese per la ricerca sulle droghe.
forse ti riferisci al fatto che non sono riusciti a portare a termine il ciclo come avrebbero dovuto per via di ingerenze esterne dettate dall'ignoranza.
cmq se noti nell'analisi quantitativa di principi attivi il test porta ad un significativo divario fra la soluzione con i minerali precisi e la soluzione con humus e letame.a favore di quest'ultima ipotesi.
per la versione in inglese non so dove possa essere.
io faccio delle letture molto interessanti su www.plantphysiol.org